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Quando mi è stato chiesto di scrivere questa testimonianza sulla mia esperienza missionaria, ho vissuto un certo smarrimento, vista la mole di esperienze e di idee maturate in questi quindici anni di Brasile. Ed allora mi son detto: “Perché non partire dall’inizio?”, sì proprio dall’inizio, non tanto in senso cronologico-narrativo (anche perché se facessi ciò, tutto il bollettino non basterebbe, per contenere le narrazioni), bensì dal punto di vista dell’intuizione iniziale.

A questo riguardo a me piace ricordare una domanda, che proponevo alla gente nelle Messe di saluto, prima della mia partenza: “Perché andare a fare il missionario nel Paese, che, a tutt’oggi, nonostante la grande perdita di fedeli, è quello che conta il maggior numero di cattolici, o meglio di battezzati? (Oltre tutto in questo novero dovremmo includere anche la maggior parte degli appartenenti alle varie sette pentecostali…)”; ma subito aggiungevo: “Però vi chiedo: come mai questa terra di battezzati, chiamata anche “Terra della Santa Croce”, è anche una delle più ingiuste del Pianeta, ha ancora bambini che muoiono di fame, nonostante le scandalose ricchezze che possiede?”.

E sì, per chi non lo sapesse, il Brasile è una delle terre più ricche di materie prime e di beni agricoli del Pianeta. Approfitto di questi piccoli flash per sollevare più di un dubbio su coloro che ancora portano medicinali, vestiti o soldi, usati genericamente per opere di carità.

Certamente chi fa l’offerta in buona fede andrà in Paradiso, ma vi posso garantire che non ha contribuito a migliorare la situazione dei poveri in Brasile.

Dopo questi primi quindici anni, devo dire che queste intuizioni hanno segnato profondamente “la mia missione”, sia nel senso del mio modo di essere missionario, sia nel senso che, le parrocchie che mi hanno ospitato, sono state segnate da queste mie domande.

 

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Infatti una caratteristica fondamentale del mio stile missionario, che ho praticamente assunto come un “dogma”, è stato il non pianificare o sostenere interventi di tipo assistenziale, sostitutivi o compensativi, di attività o competenze delle istituzioni pubbliche (mense per i poveri, scuole, ospedali, orfanatrofi e quant’altro), non perché io abbia lavorato in aree particolarmente abbienti, anzi esattamente il contrario. In realtà il motivo di questa opzione è perché, pur lavorando nello Stato più povero della Confederazione brasiliana, il Maranhão, ciò nonostante le risorse e le capacità per realizzare questi servizi c’erano, ed erano abbondanti.

Purtroppo il patrimonialismo e la corruzione endemica fanno sì che gran parte di questi beni vengano sviati per interessi personali o familiari. In questo modo, come ho visto più volte, il missionario che fa questi interventi assistenziali, normalmente, riceve titoli e benemerenze, ma in realtà i suoi interventi finiscono col favorire indirettamente la corruzione.

Visto che c’è il missionario, che fa la scuola di base, il sindaco può mangiarsi una parte dei fondi.

Oltretutto gli aiuti che arrivano gratuitamente, a pioggia, pur senza volerlo, finiscono per incentivare l’ignavia e la pigrizia dei beneficiari.

Personalmente sono sinceramente orgoglioso di aver realizzato diverse strutture pastorali, tutte rigorosamente frutto della sinergia tra il mio accompagnamento e le varie risorse locali, sia umane, che economiche. Anch’io ho usato ed uso aiuti economici dall’Italia, ma con criteri molto chiari e rigorosi. Ovvero solo mi avvalgo degli aiuti dall’Italia per iniziare progetti di rottura, rispetto alle strutture d’ oppressione locali; oppure per sostenere l’attività di “advocacy” delle Pastorali Sociali e della Pastorale della Terra in particolare.

In altre parole, queste Pastorali non hanno l’obiettivo di risolvere direttamente i problemi della gente, povera e sfruttata, bensì li appoggia e li orienta nel loro processo di emancipazione.

A questo livello gli aiuti esterni, non solo sono opportuni, anzi il più delle volte sono necessari, per rimanere autonomi e indipendenti dalle pressioni e dai ricatti dell’elite locale.

Purtroppo, come anche succede in Italia, molti missionari, in assoluta buona fede, preferiscono fare un lavoro assistenziale, perché questo raccoglie consensi sia dagli oppressi, che dagli oppressori.

Mentre invece il mettersi accanto ai poveri, rispettandone tutti i limiti e le contraddizioni, ma aiutandoli a prendere coscienza dello stato di ingiustizia ed oppressione in cui versano, genera sempre le più disparate reazioni dell’elite, anche quella che frequenta la Chiesa Cattolica, nel tentativo di intimidire e far tacere il testimone del Vangelo.

Senza volermi dilungare eccessivamente su questo argomento, mi preme qui citare la mia situazione attuale, dove un gruppo di preti locali, legati all’elite latifondista della Diocesi di Grajaú, ha chiesto espressamente al Vescovo locale di non favorire il mio ritorno in quelle terre.

In questo quadro, però, è sintomatico come il Popolo di Dio stia chiedendo in vari modi al Vescovo, che non ceda a queste pressioni.

Mi sono soffermato su questo aspetto della missione, perché mi sembra abbia molto da dire all’evangelizzazione, di cui si comincia a parlare anche per le terre ambrosiane.

Ovvero, se vogliamo rendere di nuovo significativo il Vangelo per la nostra gente, è necessario che le nostre Comunità cristiane ritornino a partecipare degli spazi vitali della nostra società, testimoniando l’opzione preferenziale per i poveri e gli esclusi, come ha fatto Gesù.

Il tutto senza preoccuparsi di essere accetti e graditi a coloro, che dividono la nostra società in base al colore della pelle, alla lingua, alla religione o quant’altro.

Facendo ciò daremo la possibilità agli uomini e alle donne di buona volontà di riconoscere che il Vangelo è la vera risposta al loro anelito di Giustizia e Verità.

Altre due caratteristiche della “mia missione”, che, peraltro alimentano e sostengono quanto detto fin qui, è la scelta pastorale di fondare tutta l’attività parrocchiale sulle Comunità Ecclesiali di base (CEBs) e sui Gruppi biblici, che, purtroppo qui in Diocesi sono conosciuti come “Gruppi d’ascolto”.

Le CEBs sono nate dall’esigenza di superare l’anonimato delle gigantesche parrocchie brasiliane, suddividendole in Comunità più piccole, tenendo come riferimenti, o il paese, o il quartiere, al fine di permettere ai battezzati di vivere una vita fraterna reale, al di là e al di fuori, della Celebrazione liturgica. Oltretutto queste CEBs, per poter funzionare, hanno bisogno del protagonismo diretto dei laici, che devono distribuirsi tra di loro i vari incarichi e le varie responsabilità. A parte la stretta celebrazione sacramentale, il resto della vita delle CEBs dipende esclusivamente dalla maturità e dalla responsabilità dei laici, che le compongono.

Domando: non è forse questo il futuro delle nostre Comunità Pastorali? O forse stiamo aspettando il momento in cui ci sarà un prete da solo in ogni Comunità Pastorale, per svegliarci dal nostro torpore?

L’altro grande pilastro della “mia missione” sono i gruppi biblici. Questi Gruppi sono pensati come la cellula base delle CEBs, sono un’ulteriore suddivisione delle CEBs in piccoli gruppi di vicinato, che si ritrovano regolarmente ogni quindici giorni. Di per sé sono pensati come la presenza cattolica in ogni via, che, a partire dalla meditazione comunitaria sulla Parola di Dio, dovrebbero fomentare la fraternità e la comunione tra le famiglie del vicinato.

In realtà, prevalentemente questi gruppi riescono solo a mantenere la regolarità quindicinale degli incontri nelle case. Ma già questo momento semplice è molto significativo, perché garantisce una visita regolare alle famiglie, tutte le famiglie, senza distinzioni, sempre che non ci sia un rifiuto esplicito da parte delle stesse. Inoltre, la struttura stessa dell’incontro è tale, che i partecipanti sono condotti sempre a rileggere comunitariamente la realtà, in cui vivono, alla luce della Parola di Dio. In questo modo il gruppo è invitato a prendere posizione, a manifestarsi, a fare qualcosa di concreto per trasformare questa realtà.

A questo riguardo mi pare, da quel poco che conosco dei Centri d’ascolto della nostra Diocesi, che questa dimensione di trasformazione della realtà sia abbastanza carente, correndo il rischio di ridurre gli incontri a dei bei momenti di meditazione, un po’ intimistica e amicale.

Ecco, a grandi linee, questa è la “mia missione”.

Don Marco Bassani