di
Federico Rampini
Continuare a dire che una «marea nera» neofascista minaccia di sommergere le due democrazie più antiche d’Occidente, è l’alibi ideale per non chiarire le responsabilità di quel che sta accadendo
Un filo rosso unisce il risultato elettorale del primo turno in Francia, e la possibile rielezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Le due liberaldemocrazie più antiche d’Occidente si avvitano in due crisi gemelle e parallele. Quasi quarant’anni fa, fui testimone diretto di qualcosa che era il preludio del trumpismo: accadeva, guarda caso, nella banlieue parigina.
L’anno era il 1986. Il mio primo incarico da corrispondente estero. Lavoravo a Parigi, allora per il Sole-24 Ore. Presidente era François Mitterrand, un gigante della sinistra europea almeno come statura culturale, soprattutto se paragonato agli epigoni di oggi. Eppure sotto i suoi occhi accadeva qualcosa che nessuno capì veramente, allora, nel quartier generale del partito socialista francese. Gli anni Ottanta videro i primi successi del Front National di estrema destra, all’epoca guidato dal padre di Marine Le Pen, Jean-Marie. Lui riuscì a farsi eleggere nell’Ile-de-France, il dipartimento che include la città di Parigi. Lentamente ma inesorabilmente, iniziò in quel periodo uno spostamento della classe operaia francese.
La banlieue (periferia) parigina era stata comunista da un’eternità; cominciò a votare a destra. Decenni prima che questo diventasse un fenomeno poderoso in tutto l’Occidente, era accaduto là e la ragione era una: l’immigrazione. La sinistra mitterrandiana non poteva capire, perché era ben insediata nei quartieri chic della capitale (come la Rive Gauche), dove gli immigrati sono soltanto utili: guidano il metrò, raccolgono la spazzatura, servono nei ristoranti, vengono a fare le pulizie di casa, tra le altre cose. In periferia, invece, dove abitano gli operai metalmeccanici di Renault, gli algerini marocchini e tunisini erano i vicini di casa, sul pianerottolo dirimpetto. I loro figli erano gli adolescenti che trattavano le ragazze bianche come delle prede sessuali. Erano talvolta gli spacciatori di quartiere. Ogni tanto quei ragazzi “beur” (seconda generazione di origine araba) incendiavano delle auto; ma non le Bmw e Mercedes nei quartieri ricchi. Dilagava già allora una legittimazione “di sinistra” dell’aggressività in nome dei torti del colonialismo da riparare; anche se gli operai francesi da quel colonialismo non avevano ricavato vantaggi, erano loro i destinatari ravvicinati della rabbia e dovevano subirla tacendo, in nome delle “colpe dei bianchi”. Si aprivano nuove moschee con madrasse fondamentaliste pagate dai petrodollari sauditi. La polizia, onnipresente ed efficiente nelle zone chic del quinto, sesto e settimo “arrondissement”, nelle periferie si avventurava il meno possibile, lasciando ad altri il controllo del territorio. I leader della sinistra glamour, da Mitterrand al suo ministro della Cultura Jack Lang, inauguravano grandi opere di prestigio in centro, come il Grande Louvre e il Musée d’Orsay. Gli operai, con un’amarezza silenziosa e una rivolta nel segreto dell’urna, cominciavano a sospettare che la sinistra avesse scelto altri ceti e altri interessi da difendere.
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Per aver vissuto in prima linea, quasi quarant’anni fa a Parigi, la nascita di quella destra oggi divenuta maggioritaria, cominciai a indagare sugli errori della sinistra che avevano «fabbricato Le Pen». Una delle frasi in codice che oggi ti fanno riconoscere come uno stimato opinionista di sinistra, è che “dobbiamo stare dalla parte dei più deboli”. Sottinteso: purché i deboli siano stranieri, possibilmente senza documenti, meglio ancora se hanno la pelle di un colore diverso dal nostro. Deboli lo sono se corrispondono a questa descrizione. Almeno una parte della sinistra, ha deciso che sono sempre e soltanto queste le vittime dell’ingiustizia, per definizione. Tanto peggio per i pensionati poveri, con cittadinanza nazionale, se la sera hanno paura a rincasare da soli perché sotto casa loro comandano gli spacciatori. Gli si risponde con citazioni statistiche, per dimostrargli che non esiste un legame tra stranieri e criminalità. Dunque se loro vedono dei nordafricani spacciare impunemente sui marciapiedi del loro quartiere, è un’illusione ottica. O peggio, fare l’accostamento tra il mestiere dello spacciatore e la sua nazionalità o provenienza etnica, è un riflesso razzista. Che taccia il pensionato povero, e si vergogni di avere questi pensieri immondi.
C’è un altro termine che l’opinionista della sinistra politically correct ama usare, per distinguersi come un paladino della più nobile di tutte le cause. Bisogna difendere “gli ultimi”, cioè i più deboli fra i deboli. Così è davvero chiaro di chi si sta parlando, non c’è possibilità di equivoco, perché in quest’epoca in Francia – o in qualsiasi altro paese occidentale – il cittadino della nostra stessa origine nazionale è raramente l’ultimissimo nella gerarchia sociale. C’è di sicuro una parte della popolazione immigrata che sta ancora peggio, è doveroso quindi occuparsi di loro con un’attenzione speciale. Questa è la causa che ha più glamour, che distingue, che dà superiorità etica a chi l’abbraccia. Non è chic darsi da fare per migliorare le condizioni della nostra classe operaia. «La classe operaia è un concetto superato, non esiste più». Non c’è dubbio che la composizione sociale dei nostri paesi sia cambiata molto, rispetto ai tempi in cui facevo il giornalista del Pci e andavo ai cancelli della Fiat Mirafiori a intervistare gli operai. Oggi quella classe operaia lì, il metalmeccanico o il siderurgico, è diminuita numericamente. Non è affatto scomparsa, però. Io le fabbriche le frequento ancora. Facendo il corrispondente negli Stati Uniti, anziché a Torino Mirafiori vado a Detroit e dintorni. Di operai ne incontro ancora tanti, in carne ed ossa; non sono fantasmi del passato. Lavorano alle catene di montaggio di Ford, General Motors, Chrysler. Altri ne ho conosciuti e frequentati in Pennsylvania, siderurgici negli altiforni vicino a Pittsburgh. Ne ho intervistati, che votarono per Barack Obama nel 2008 e nel 2012, poi scelsero Donald Trump nel 2016. Peste nera, fascistizzati di colpo anche loro, razzisti? Anche se per due volte avevano eletto un afroamericano?
Poi c’è la nuova classe operaia. I fattorini di Amazon sono un esempio di mestieri in crescita, grazie al boom dell’economia digitale e del commercio online. Mi sembra corretto includerli in una definizione aggiornata della classe operaia. Come le commesse degli ipermercati. I vigilantes che fanno la guardia di notte agli uffici. Il personale di sicurezza nei centri commerciali o negli aeroporti. Sono tutte mansioni che come reddito e status non superano gli operai metalmeccanici, anzi spesso stanno un gradino sotto, almeno nelle gerarchie salariali americane. Non trovo anacronistico usare il termine classe operaia, se con questo abbiamo chiaro di che cosa stiamo parlando: sono dipendenti che per livelli di istruzione, reddito, prestigio, rappresentano la fascia bassa del mondo del lavoro. Non laureati. Aggiungerei perfino i poliziotti: che la sinistra ha sempre trattato con diffidenza o aperta ostilità, salvo l’eccezione importante del poeta Pier Paolo Pasolini che nel 1968 stava dalla parte loro, veri proletari. Sono mestieri che i laureati figli di laureati da tre generazioni non vorrebbero fare. Però non sono così in basso da essere gli ultimissimi. Magari sono i penultimi; dunque preoccuparsi di loro non ti dà una vera patente di progressista. Usando una specie di allegoria per riassumere tante storie individuali, a questi bianchi poveri il mitico Sogno Americano («terra delle opportunità») oggi appare come un miraggio distante, una luce fioca all’orizzonte verso la quale vorrebbero progredire. Si raffigurano collettivamente come una grande colonna in fila, in attesa di procedere verso quel traguardo ambito. Ma la fila si muove lentissimamente, è quasi ferma. Ogni tanto però qualcuno si stacca dal fondo, supera gli altri, e passa davanti. Sono, per l’appunto, gli ultimi: i più derelitti, le minoranze a cui la sinistra ha deciso di dedicare un’attenzione speciale. Servizi sociali, Welfare, provvidenze pubbliche, corsie preferenziali, gli vanno riconosciuti anche se a rigor di legge forse non ne avrebbero diritto. I media devono circondarli di attenzione. Una società avanzata, una società democratica degna del XXI secolo, si riconosce da come tratta “loro”. I penultimi, li lasci pure dove sono.
A volere il rispetto delle frontiere, sono gli immigrati stessi. Ne ho incontrati tanti negli Stati Uniti. Per esempio messicani integrati da tempo, i quali votano Trump perché «di qua regnano la legge e l’ordine, di là il caos». Già immagino la spiegazione politically correct. Il messicano naturalizzato statunitense che ha votato per Trump è un egoista, un piccolo borghese che pensa solo a se stesso, lui ce l’ha fatta e non vuole che altri più poveri abbiano anche loro accesso al Sogno Americano. È passato di qua dalla frontiera del benessere e ora vorrebbe alzare il ponte levatoio per tenerselo stretto, quel benessere. Un egoista? Il fatto è che tutti quegli altri farebbero la stessa cosa. Se fuggono dall’Honduras o dal Guatemala o da qualche regione messicana dove comandano i narcos, è proprio perché negli Stati Uniti pensano di trovare un sistema diverso da quello che lasciano; uno Stato di diritto, dove la polizia e i tribunali funzionano, dove chi rispetta le regole può lavorare in pace, far studiare i figli, costruirsi un futuro migliore. Il confine lo vogliono oltrepassare non perché lo considerano obsoleto, ma al contrario perché lo considerano una protezione efficace, a tutela di chi sta dall’altra parte… la parte giusta. I richiedenti asilo hanno le idee chiarissime, sull’importanza sacrosanta dei confini. E il messicano che “ce l’ha fatta” non è necessariamente un egoista (ne ho incontrati, a El Paso in Texas, disposti ad adottare i minorenni clandestini). Ha però il timore che un’immigrazione non governata, selvaggia e sregolata, porti di qua dal confine quel caos violento e feroce che lui si è lasciato alle spalle. Il messicano che si è naturalizzato diventando cittadino degli Stati Uniti, nel rispetto delle regole e delle procedure, talvolta condivide le preoccupazioni dell’operaio bianco del Michigan: come in tante altre cose, pensa, anche per l’immigrazione è questione di quantità, di dosaggio, di regole e di equilibri. Se lo Stato riesce a far rispettare le proprie regole, dà un’impronta e una disciplina ai nuovi arrivati; in caso contrario l’immigrazione diventa un’invasione, destabilizza e genera insicurezza.
Questo è il filo rosso che unisce il risultato elettorale di ieri sera in Francia, e quel che potrebbe accadere il 5 novembre negli Stati Uniti… anche a prescindere dalla débacle di Joe Biden nel duello televisivo con Trump. Sono le due liberaldemocrazie più antiche d’Occidente. La Rivoluzione americana del 1765-1787 precedette e ispirò quella francese del 1789. Le loro due Repubbliche s’influenzarono sulle due sponde dell’Atlantico. Insieme, diedero vita alle dichiarazioni dei diritti umani che continuano a ispirarci più di due secoli dopo. Il loro gemellaggio continua: ora anche nel declino.
Ma continuare a dire che una «marea nera» neofascista minaccia di sommergere le due democrazie più antiche d’Occidente, è l’alibi ideale per non chiarire le responsabilità di quel che sta accadendo. È comodo e ingannevole parlare di “peste nera” come fosse un flagello naturale, un’epidemia. Così si evitano di fare nomi e cognomi dei colpevoli, e si evita di elencare gli errori fatali, di chi ha consegnato alla destra questa egemonia.