
La prima lettura (Gs 24, 1-2a. 15b-27) ed il Vangelo di questa domenica (Gv 6, 59-69) ci offrono la possibilità di una pacata, quanto radicale, meditazione su una delle dimensioni fondamentali dell’esistenza umana: il credere.
Il testo di Giosuè, ambientato sulla soglia dell’ingresso nella Terra Promessa, in realtà contiene in sé diverse esperienze databili in tempi diversi. Durante queste assemblee Israele ha riconosciuto la necessità di fare il punto sulla sua Fede in YHWH. Soprattutto Israele constata, che non è facile camminare nella Storia affidandosi alla Parola di Colui, che si è rivelato dicendo “Io sono colui che è”; ovvero l’indicibile, Colui che sta al di là della nostra esperienza. Eppure, ha chiesto ad Abramo di lasciare tutte le sue radice familiari e culturali, per iniziare una nuova Storia, un nuovo percorso fondato unicamente sull’ascolto della Sua voce, della sua Parola, che parla nell’intimo della coscienza di Abramo.
Per peggiorare la situazione, alle varie tribù che tramandavano questa Fede abramitica, attraverso Mosè viene proposto di affrontare il faraone ed il suo impero, contando semplicemente sulla certezza della scelta paradossale di JHWH di voler liberare Israele, perché piccolo, insignificante e impotente di fronte alla potenza del faraone.
Come sappiamo, questi, come altri momenti della storia di Israele, sono segnati dal continuo oscillare del pendolo della Fede: dall’affidamento fiducioso alla Parola di Colui che è, alle ricorrenti paure di essere soli di fronte ai potenti di questo mondo. Da qui la ricorrente tentazione d’Israele di provare a salvarsi con le proprie forze, cercando di costruire accordi ed alleanze con i potenti di turno.
Le Assemblee che si celebrano a Sichem sono celebrazioni, ad un tempo religiose e politiche, dove Israele fa memoria della singolarità della sua chiamata e della sua storia, per cercare di ritornare alla sua Fede originaria, che è ad un tempo affidamento ed obbedienza al Signore della Storia ed alla sua Parola. Tutto il resto è solo frutto della sua fragilità e della sua incredulità, che rischiano costantemente di riportare Israele sullo stesso piano degli altri popoli, perennemente impegnati con i loro riti e i loro sacrifici nel piegare gli dei alle loro attese.
Dentro questa tensione tra l’ascolto obbediente della Fede e la costruzione di un idolo, fatto a propria immagine e somiglianza, si sviluppa il Vangelo, che conclude il grandioso cap. 6 di San Giovanni. Ormai JHWH ha squarciato le nubi e ci parla nella vita di Gesù di Nazareth. Addirittura si offre a noi nella sua prassi rivoluzionaria, eppure in perfetta continuità con il Signore dell’Esodo, che si prende a cuore la Liberazione d’Israele.
La difesa caparbia della paternità e della signoria del Padre, unite all’attestazione dell’assoluta fraternità umana, ci vengono da Lui proposte come il percorso della nostra definitiva Liberazione, la Salvezza per tutta l’umanità. Per questo motivo, senza false umiltà e senza ipocrisie, Gesù di Nazareth chiede ad ogni uomo e ad ogni donna di “mangiarlo e berlo”; ovvero di assumerle fino a farle nostre le sue prospettive di vita, il suo sguardo e i suoi giudizi sulla realtà.
Gesù di Nazareth, mentre taglia alla radice ogni vuota riflessione sul dio del cielo in quanto non-accessibile per noi, al tempo stesso ci indica nell’essere per gli altri, nel servizio al fratello ed alla sorella il senso ultimo di questa nostra vicenda terrena.
Ma un Dio così è troppo vicino e troppo umano, per poter essere creduto, per meritare la nostra fiduciosa obbedienza. Meglio non fidarsi troppo e tornare ad affidarci all’idolo fatto a nostra immagine e somiglianza, che la nostra ragione può contenere e la nostra libertà manipolare. Tanto sempre di una fede si tratta…
A ciascuno scegliere a chi credere e a chi affidarsi…
Pe. Marco
