downloadIn questa strana riforma liturgica, promossa dalla Diocesi ambrosiana, siamo per la seconda volta obbligati a riflettere sulle tematiche legate al peccato ed alla misericordia, giustamente alla vigilia del Tempo per eccellenza legato a queste tematiche: la Quaresima.

Detto ciò, le letture di questa domenica sono introdotte da questo brano del Deutero Isaia, che ripete categoricamente l’intenzione salvifica di Adonai, che perdonando le trasgressioni d’Israele, vuole infondergli la forza per riprendere il sogno di vivere in libertà ed fraternità nella Terra, che il Signore gli ha donato.

Dopo questa solenne e potente introduzione, la seconda lettura ed il Vangelo vogliono piuttosto farci prendere coscienza del fatto che, affermare e professare la Misericordia divina è certamente importante, ma può essere inutile per ciascuno di noi, se non riconosciamo e non vinciamo il fariseo che c’è in noi, in ciascuno di noi. Infatti, la parabola evangelica di oggi vuole smascherare ed abbattere ogni illusione ed ogni pretesa di “mettersi davanti a Dio”, immaginando o rivendicando qualsivoglia merito. Questo atteggiamento spirituale, che ci esclude dalla Misericordia del Padre, benché possa essere ben occultato da un certo linguaggio religioso, si rivela, però, drammaticamente nel nostro modo di essere e d’agire. Infatti, la dura requisitoria di S. Paolo, presa dalla Lettera ai Romani, smaschera il fariseismo di sempre, che si rivela ogniqualvolta giudichiamo, stabiliamo dei metri di giudizio e paragone tra noi e gli altri.

Questo atteggiamento nefasto non può essere vinto semplicemente con la buona volontà, o con inutili mortificazioni. Solamente un’attitudine, uguale e contraria, può vincere il nostro senso di superiorità: la consapevolezza profonda del nostro peccato, delle nostre infinite debolezze. Solamente chi vive costantemente con questa lucida consapevolezza non sarà più in grado di guardare gli altri da qualche punto di vista, immaginato come superiore.

Uscendo apparentemente dall’argomento, mi viene però spontaneo, in questo momento, ricollegare queste tematiche con il Sinodo Minore da poco iniziato nella nostra Diocesi. Per quel che vedo io, il pericolo più grande, che potrebbe vanificare il Sinodo stesso, è il mettersi nell’atteggiamento, che, simbolicamente, chiamerei “dei bravi fratelli maggiori”. Adesso tutti noi, cattolici lombardi ambrosiani dalla nascita, obbedendo al nostro “papà”, l’Arcivescovo, ci sforziamo di amare di più, di essere più gentili, di dare più aiuti, ai nostri “fratelli minori”, i cattolici stranieri. E, magari, in un impeto di generosità, cercheremo di essere meno ostili anche con i mussulmani. Fermo restando che noi, che siamo in una posizione di superiorità: economica, culturale, spirituale ecc… dobbiamo sforzarci, per accoglierli in qualche modo tra di noi.

Brutalmente mi verrebbe da dire che, con un paternalismo del genere, gli stranieri rimarranno sempre tali e non si sentiranno mai “in casa” qui da noi.

Il Sinodo, a partire dal suo stesso titolo, ha una pretesa radicalmente diversa. E la sua pretesa, prima che essere legata a “qualcosa da fare”, è quella di farci prendere coscienza che non possiamo più usare la classica distinzione noi/loro; noi, i cattolici, bianchi, lombardi e ambrosiani e loro, gli stranieri, i non-italiani, mettendo assieme indistintamente cattolici, altre Chiese cristiane e i mussulmani. L’attuale configurazione della nostra Diocesi, ma anche dell’Italia in generale, ci obbliga a riconoscerci come un “noi” ecclesiale meticcio. In realtà questo noi, che dobbiamo definire per praticità “meticcio”, dovremmo semplicemente chiamarlo “la Chiesa”, ben sapendo che l’essere Chiesa non dipende dalla razza, dal sesso, dalla cultura, dalla lingua e quant’altro; bensì semplicemente dalla comune fede in Gesù di Nazareth.

Invece, parlando del Sinodo, ho già sentito affermazioni del tipo: “Ma come dobbiamo comportarci per evangelizzarli?”; oppure “Non possiamo tacere il fatto che li accogliamo nel nome di Gesù, il Crocifisso”. Ma come, non sono forse battezzati come noi? Non hanno forse fatto la Prima Comunione? Non leggono la stessa nostra Parola?

Ecco allora che l’obbiettivo del Sinodo, oltre a volerci far prendere coscienza del carattere profondamente meticcio della Chiesa ambrosiana del terzo millennio, è quello di stimolarci nel rivedere tutta la nostra prassi pastorale, per verificare se è altrettanto meticcia come lo sono ormai le nostre Comunità cristiane. Per essere realmente una Chiesa dalle genti, è necessario che la nostra Liturgia diventi “dalle genti”, così come i nostri Oratori, la nostra Catechesi, i nostri Gruppi familiari, al nostra Caritas e via dicendo.

Ma ciò sarà possibile se vivremo in modo ancor più consapevole il fatto di essere tutti, ugualmente, peccatori perdonati e riconciliati dalla morte in Croce di Gesù. Senza alcun merito personale…

 

Pe. Marco