img20180601164649698_900_700Le letture di questa domenica sono introdotte da questa prima lettura, tratta dal famoso giuramento dell’Assemblea realizzata a Sichem tra le varie tribù d’Israele. I contorni di quell’avvenimento ci sono ovviamente oscuri, vista la lontananza temporale che ci separa da essi. D’altro canto, dal teso in nostro possesso sembra chiaro che quell’avvenimento fu promosso da quelle tribù semitiche della Terra di Canan, che si riconoscevano nel culto a JHWH. Ovviamente non mi passa neanche per l’anticamera del cervello approfondire questo tema fondamentale per la nostra fede. Rimane il fatto che questa modalità d’intendere la fede ed il rapporto tra il divino e l’umanità fu il primo germe, da cui scaturirà il Popolo d’Israele.

Volendo azzardare la solita definizione semplificatrice, direi che il tratto fondamentale di questo culto è l’affermazione categorica della trascendenza del divino: ciò che noi chiamiamo Dio è radicalmente e strutturalmente “altro” rispetto al nostro mondo umano, a tal punto che l’israelita non poteva neanche pronunciare quelle quattro consonanti della lingua ebraica. Ciò significa che qualsiasi nostro parlare di Lui è precario e limitato. Al tempo stesso, la fede jahvista professa la presenza di JHWH nella Vita e nella Storia. Lui ha in mano le sorti di entrambe, in particolare del Popolo che per primo lo ha riconosciuto: Israele.

Ma questo germe di fede in JHWH si definisce e si radicalizza ad un tempo, durante l’esperienza della schiavitù in Egitto. Grazie alla leadership profetica di Mosè, Israele riconosce che JHWH non sta in cima alla piramide, fondendosi quasi con l’autorità del faraone. Egli ha scelto di collocarsi dalla parte di chi sta sotto e sorregge tutto il peso della piramide sociale: gli israeliti ridotti in schiavitù. Non solo, ma Lui è alla loro testa, è il comandante in capo nella loro lotta in cerca della libertà e di una terra dove vivere in libertà. Dunque JHWH è sì presente nella Storia, ma lo è in modo imprevedibile ed inaudito. Non deducibile dalle nostre categorie umane di prestigio e di potere.
Con la conquista della Terra promessa, Israele cerca di organizzarsi socialmente e religiosamente in forme alternative, rispetto alle normali strutture gerarchizzate ed oppressive a lui vicine. Ma la fragilità umana non resse a lungo in quella condizione unica e singolare. La seduzione della religiosità pagana, molto più a misura della mente umana, e delle strutture sociali ad essa conseguente minano la fede jahvista.

In questa situazione s’inserisce l’Assemblea di Sichem, che rappresenta un passaggio fondamentale per queste tribù; infatti con questo evento simbolico-rituale celebrano questa loro comune visione di fede e s’impegnano nel contrastare le tentazioni di ricadere negli atteggiamenti idolatrici dei popoli loro vicini. In altre parole Sichem è un passaggio fondamentale nella lotta anti-idolatrica delle tribù d’Israele: Israele è chiamato a scegliere tra la fedeltà a JHWH, il Signore indicibile, ma fedele, che vuole una vita di libertà e di pienezza per il suo popolo, o la fiducia riposta negli idoli frutto della fantasia umana, facilmente manipolabili dai potenti di turno.

Credere in JHWH, riunirsi e aggregarsi attorno a ciò che rappresenta questo nome, significa credere che il mondo da Lui creato può essere una “terra dove scorre latte e miele” per tutti i figli del suo Popolo; dove nessuno dei suoi figli dovrebbe essere ridotto in schiavitù; dove lo straniero, l’orfano e la vedova troveranno sempre assistenza e rifugio.

L’Assemblea di Sichem e la teologia ad essa collegata rimandano alla relazione circolare e inestricabile tra le nostre strutture sociali e l’immagine del divino, che veneriamo nelle nostre celebrazioni. Come in tutti i processi circolari è impossibile dire ciò che viene prima, o è più importante. Certamente, invece, possiamo dire che queste due dimensioni dipendono una dall’altra. Pertanto, da come viviamo e celebriamo la nostra fede dipendono le strutture ed i rapporti di classe all’interno della nostra società. Così come le strutture, più o meno libere, più o meno giuste della nostra società, ci aiutano a riconoscere, o ci fanno distorcere il volto di questo Mistero, che chiamiamo JHWH.
Ciò significa, contrariamente a quanto si dice comunemente, che la ricerca ostinata e ideologica della separazione tra la fede/culto e la vita non è la forma ideale, perfetta di vivere la fede. In realtà è una delle forme possibili certamente funzionale a determinati interessi e a determinati rapporti di potere.

Pe. Marco