INTERVISTA. Rassa Ghaffari, sociologa e assegnista di ricerca all’Università di Genova, autrice di Strade di donne in Iran. Generi, generazioni, proteste, pubblicato a settembre da Astarte Edizioni
È trascorso poco più di un anno dall’esplosione della rivolta femminista iraniana. Dei percorsi compiuti dai movimenti femminili e femministi nel paese, abbiamo parlato con Rassa Ghaffari, sociologa e assegnista di ricerca all’Università di Genova, autrice di Strade di donne in Iran. Generi, generazioni, proteste, pubblicato a settembre da Astarte Edizioni.
Nel libro attraversa le strade dei femminismi iraniani insieme alle donne che mai le hanno abbandonate. Il suo percorso è storico, sociologico e politico. Da cosa deriva la profonda e continua politicizzazione delle donne iraniane?
Delle donne iraniane e delle loro battaglie si sente parlare dai media europei solo in coincidenza con degli episodi significativi. In realtà, la letteratura classica fa risalire le mobilitazioni femministe iraniane alla fine dell’Ottocento per poi proseguire con la rivoluzione costituzionale dei primi del Novecento. Le donne iniziarono a mobilitarsi non solo per la condizione femminile ma per quelle economiche e politiche della società, dimostrando di essere tutt’altro che soggetti passivi e disinteressati. La consapevolezza delle donne spesso non è stata tramandata ma la loro partecipazione alla vita quotidiana della società è evidente nel corso del tempo. Esiste una genealogia di lotte che vanno avanti non solo per se stesse, ma per la società intera, qualcosa che ritorna nelle proteste del 2022-23.
In tal senso «Donna vita libertà» non è un semplice slogan, ma un approccio filosofico. La liberazione delle donne si accompagna alla liberazione della società, all’uguaglianza socio-economica e all’autodeterminazione di tutte e tutti. Quanto questo aspetto è colto dal resto della società iraniana, tenendo conto anche delle differenze tra geografie e classi sociali?
Quello slogan rende molto bene lo spirito di questo movimento e la sua novità: riuscire a coinvolgere strati della popolazione diversi, soggettività che finora non erano mai riuscite a coalizzarsi, a riunirsi intorno alla causa femminile. La storia ci insegna, non solo in Iran, come le lotte dei movimenti femminili e femministi tendevano a essere considerate divisive o secondarie, qualcosa che riguardava solo la condizione delle donne. Una realtà a cui si aggiungono anche le fratture nei movimenti femministi che non riuscivano a dialogare con le donne della classe lavoratrice o a utilizzare un vocabolario e un discorso che potessero attrarre donne di minoranze rurali o religiose. La caratteristica che io vedo in questo movimento è quello di essere riuscito a far dialogare donne provenienti da diversi background, superando le problematiche della campagna «Un milione di firme» del 2006, lanciata da personalità importanti come la premio Nobel Shirin Ebadi: una delle critiche che era stata mossa era proprio l’approccio poco inclusivo verso certe realtà. La rivolta del 2022-23 supera la logica del progresso della società come separato dal progresso delle donne: il discorso del pubblico e del politico dice che non possiamo più scindere queste due sfere, che per migliorare le condizioni di tutte e tutti non possiamo più prescindere dal miglioramento delle condizioni delle donne. Il movimento si è reso conto del bisogno che c’è della sua intersezionalità.
Assistiamo a cambiamenti reali nella società iraniana?
Mi arrivano racconti molto contrastanti: da una parte molte persone mi dicono di notare un cambiamento anche nei comportamenti di molti uomini, del loro codice d’abbigliamento, di atti di trasgressione. Altre testimonianze, soprattutto delle generazioni più anziane, non colgono ancora la portata delle trasformazioni in atto. In ogni caso la maggior parte delle persone con cui parlo mi comunicano la sensazione di essere giunti a un punto di non ritorno per la società e per le sue dinamiche. Parliamo di qualcosa di limitato per ora alle grandi città: si rischia sempre di usare Teheran e la classe media come punto di riferimento, è però reale la capacità del movimento di coinvolgere varie soggettività, qualcosa di rivoluzionario le cui conseguenze saranno visibili con il tempo.
Elemento centrale del libro è quello generazionale, l’agire politico di diverse generazioni di donne (e di uomini) in reazione o a volte in anticipazione dei grandi sconvolgimenti storici, dal 1979 a oggi.
Mi interessa molto utilizzare la lente della generazione come categoria d’analisi, anche per motivi personali, il far parte io stessa di una generazione che nella vulgata politica e pubblica è soggetta a un processo di demonizzazione: una generazione passiva, indolente, che non vota, che non partecipa. Io coglievo un grande gap tra la narrazione che circolava sui giovani e le loro pratiche concrete, il loro modo di comprendere cosa vuol dire far politica nella società iraniana e come innestare cambiamenti sociali. Io non avevo partecipato attivamente alle proteste del 2009 perché ero piccola, ma ricordo il grande protagonismo dei miei cugini più grandi, nati negli anni ’80. All’epoca c’era l’idea di poter cambiare il sistema, oggi lo scopo è farlo sparire. Il dialogo con le istituzioni e il riformismo che aveva significato tanto negli anni precedenti per i giovani oggi non funziona più. Dal 1979 è cambiato il modo in cui le diverse generazioni di donne hanno dialogato con lo Stato per migliorare la propria condizione: i sit-in, la campagna del milione di firme e le petizioni erano l’ambito nel quale ci si muoveva, quello legale. Con il turnover generazionale cambia il modo di concepire l’attivismo, che diventa qualcosa che viene agito senza mediazioni. Cambia il rapporto con lo Stato: non si cerca più il dialogo ma si cerca di provocare una rottura. L’atto delle ragazze di Via della Rivoluzione, il posizionarsi in uno spazio pubblico da sole o in piccoli gruppi e reclamare la propria presenza, la propria visibilità, senza innescare un dialogo fa vedere chiaramente la frattura con le generazioni precedenti.
Questa nuova forma di mobilitazione che descrive è frutto del fallimento del dialogo precedente o di condizioni sociali e politiche nuove?
Entrambe le cose. Da una parte il riconoscimento che il pilastro degli anni ’90 e 2000, cioè l’esperimento riformista, è stato un fallimento, concluso con l’elezione di Ahmadinejad. Dall’altra parte c’è un elemento generazionale a livello globale: il dialogo politico non funziona. Le proteste degli ultimi anni sono state gestite con una repressione brutale, per cui il dialogo riformista non è più attraente.
È individuabile un’influenza o un legame con movimenti fuori dai confini iraniani?
Le proteste di quest’ultimo anno sono in dialogo con tutta un’altra serie di movimenti sociali, si inseriscono in un contesto globale di grandi mobilitazioni internazionali per il diritto all’aborto, contro i femminicidi e il movimento MeToo che in Iran ha avuto uno sviluppo locale che da casi eclatanti ha portato alla creazione di un sito che fornisce consulenza legale. Ma soprattutto ci sono i legami con Black Lives Matter: nelle proteste circolavano cartelli «Non respiro», un richiamo a George Floyd, che se anche non è direttamente legato al tema del sessismo dimostra il ruolo che quel movimento ha avuto nella politicizzazione iraniana.
Dopo poco più di un anno dall’inizio del movimento del 2022, come si struttura oggi? Resta acefalo o sta maturando una leadership?
La mancanza di leadership continua a esserci, ma non tutti sono d’accordo nel considerarlo una debolezza. La mancanza di una leadership ha caratterizzato i movimenti femminili e femministi iraniani nel corso della storia. La mobilitazione continua nella vita quotidiana mantenendo alta l’attenzione sugli imprigionamenti, le esecuzioni, la violazione dei diritti. Le proteste per strada sembrano finite ma si riaccendono episodicamente spostandosi di nuovo nelle periferie da cui erano partite. E soprattutto le si vede nella vita di tutti i giorni, lo sconfinamento della quotidianità continua a esserci e non si fermerà.