Purtroppo la liturgia della Parola di questa domenica è un chiaro esempio di una sensibilità liturgica e biblica d’altri tempi.
Infatti, il nocciolo tematico, attorno al quale si sviluppano queste letture, è l’affermazione che Gesù è figlio di Davide, secondo la carne, pur essendo Signore anche di Davide; ovvero la regalità, la messianicità di Gesù, non è riducibile alla mera questione dinastico-politica. In altre parole dobbiamo leggerla in una prospettiva ben più profonda, quella che denominiamo con il titolo “Figlio di Dio”. Detto ciò, non saprei che altro di significativo potrei dirvi al riguardo.
Pertanto, pur non essendo l’aspetto più importante di queste letture, vorrei soffermarmi sui criteri divini nella scelta del re Davide. Vista la giovane età, nella quale fu scelto, c’è il pericolo di fraintendere i criteri divini con la contrapposizione grande/piccolo: JHWH non ha scelto ciò che è “grande”, bensì ciò che è “piccolo”. Invece il testo biblico è ben chiaro “Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”. Dunque la contrapposizione è tra uno sguardo che si ferma in superficie, alle sole apparenze, ed uno che sa andare in profondità, al cuore, alla realtà delle persone e degli avvenimenti. Pertanto la questione è molto più seria e molto più complessa.
Meditando su queste parole, per associazione d’idee, mi è ritornato alla mente un detto brasiliano: “O coração do outro è terra onde ninguém anda” (il cuore dell’altro è un terreno dove nessuno entra).
Questo detto mi pare liberi il campo da facili illusioni. Il dato di realtà è che ciascuno di noi non ha accesso all’intimità, al nocciolo più profondo del cuore dell’altro.
In questo senso non finirò mai di stupirmi nel contemplare la densità della relazione di certe coppie, nonostante la lucida consapevolezza della non conoscenza dell’altro/a, dell’irraggiungibilità dell’intimo della coscienza del partner. Per questo motivo dobbiamo dire che su questo aspetto il Signore parte decisamente avvantaggiato, visto che Lui ha libero accesso al nostro cuore; anzi, ci conosce meglio di noi stessi, per stare alla famosa affermazione di S. Agostino.
Eppure, pur nella consapevolezza di quanto detto fin qui, il versetto del libro di Samuele suona chiaramente come un invito a mettere in atto tutti gli strumenti a nostra disposizione, per osservare le persone e gli avvenimenti con gli occhi, o forse meglio, con il cuore di JHWH.
Paradossalmente noi ci ritroviamo ad ascoltare queste parole mentre siamo avvolti e coinvolti completamente in questa società/cultura dell’immagine, delle apparenze; a tal punto che oggi non si esita nel dire che “solo ciò che appare esiste”, non tanto nel senso ontologico, quanto nel senso antropologico: per l’uomo/donna di oggi esiste solo ciò che appare.
Travolti da questa devastante onda culturale, assistiamo a vicende a dir poco nefande, eppure provocate dal bisogno di apparire, di affermare così la propria esistenza.
Mentre invece, per altri versi, il nostro essere più profondo rischia di “sciogliersi, dissolversi” a contatto con un’immensità d’immagini, di apparenze, dietro le quali è difficile incontrare qualche identità degna di questo nome. Ovviamente quanto detto vale innanzitutto per le persone, prima che per gli avvenimenti, che sono soprattutto frutto di questa umanità, nebulosa e inafferrabile.
Certamente dobbiamo tener presente quanto ci dicono gli psicologi, secondo i quali noi abbiamo bisogno di costruirci delle maschere, delle immagini a mo’ di difesa, perché, se la nostra intimità fosse facilmente accessibile a chiunque, probabilmente non riusciremmo a portare il peso di tanta trasparenza, di tanta visibilità, di ciò che ci è più intimo e più caro.
D’altro canto, questa nostra epoca pare segnata dalla tendenza a far di tutto, per non lasciar trasparire ciò che veramente siamo e ciò che veramente pensiamo. Contemporaneamente, o forse come conseguenza di quanto detto sopra, viviamo tutti di una frenesia compulsiva nel voler divulgare la nostra “maschera pubblica”, l’immagine di noi che ci piace, quasi come se fosse l’ultima possibilità di essere ancora riconosciuti, accettati, nonostante gli altri sappiano che quella non è la nostra vera identità, bensì una delle tante deformazioni.
Se mi è permesso citare un semplice esempio, per capire quanto voglio dire, basterebbe osservare un poco la gestione dei nostri profili sui vari social. Il più delle volte a me capita di dover chiedere espressamente chi sia il mio interlocutore/interlocutrice, perché l’immagine esposta al pubblico non permette d’identificare il soggetto in questione. E non dico ciò pensando a coloro che collocano delle foto simboliche; tutt’altro. Quanto detto avviene soprattutto per coloro che collocano delle foto di sé stessi, soprattutto se il soggetto in questione appartiene al gentil sesso.
A me pare che il versetto citato all’inizio di questa riflessione contesti radicalmente l’attuale tendenza culturale. Conseguentemente, a me pare, che la Parola chieda ancora una volta a noi cristiani il coraggio di andare controcorrente, anche in questo campo. E andare controcorrente comporta due movimenti complementari tra di loro. Se da un lato ci viene richiesto di fare la fatica di “guardare” con la profondità e la sapienza del Signore; dall’altro, forse più coraggiosamente ancora, ci è chiesto di non lasciarci irretire e trasportare da questo gioco delle apparenze, per lasciare semplicemente trasparire ciò che siamo e ciò che pensiamo, per quanto possiamo…
Pe. Marco