faggioli
 
Che la Curia Romana sia sinonimo di scandali non è un fatto nuovo. In sé, la Curia Romana è quasi un genere letterario, anche prima di Lutero. Quello che è nuovo è il rapporto tra il papa e la Curia Romana – e questo non dipende dai dettagli su questa o quella rivelazione contenuta nei documenti trafugati. Vi sono questioni su cui Bergoglio opera per mandato quasi esplicito del conclave che lo ha eletto: la riforma della Curia romanala trasformazione dello IOR, la pulizia di quanti nella chiesa a tutti i livelli maneggiano grandi quantità di danaro. Su queste questioni papa Francesco non ha difficoltà a invocare e menzionare esplicitamente il consenso emerso tra i cardinali prima della sua elezione. Il problema, anche per alcuni di coloro che lo hanno eletto, è la profondità e radicalità con cui Francesco sta interpretando questo mandato.

Bergoglio agisce e parla con spregiudicatezza, ma soprattutto governa la chiesa etsi Curia non daretur, con un sostanziale appoggio esterno che gli viene dall'autorevolezza e popolarità acquisita in questi primi due anni di pontificato. Ma vi sono altre questioni su cui papa Francesco agisce al di là o senza un mandato esplicito proveniente dal conclave: lo si è visto al Sinodo, lo si vedrà al Giubileo (un giubileo che si annuncia molto più austero dei precedenti). In questo senso è evidente che papa Francesco agisce in forza di due mandati diversi, il mandato conclavario: quello di una pulizia e una riforma, ma senza esagerare ("Adelante Pedro, ma con juicio", come diceva il cancellier Ferrer ne "I promessi sposi") e un mandato che impropriamente si potrebbe chiamare "popolare" (divorziati risposati, omosessualità, de-ideologizzazione della chiesa). I due mandati non coincidono nella mente di alcuni elettori del papa, e qui sono probabilmente le radici delle scosse di assestamento dirette alla persona del papa (la lettera dei cardinali all'inizio del Sinodola falsa notizia sulla sua salute, etc.).

Dal punto di vista della storia dell'istituzione della Curia Romana è molto interessante vedere come Francesco stia procedendo a separare non solo se stesso da certi personaggi, ma a separare anche il primato del papa dalla Curia Romana – una Curia che per lungo tempo si è fatta scudo del primato del papa per fare di tutto e di più (anche teologicamente, e non solo per strani maneggi finanziari e politici). Francesco vede le due questioni – moralizzazione della chiesa nell'uso delle risorse e negli stili di vita dei suoi pastori, e riorientamento della chiesa in un senso maggiormente evangelico e meno istituzionale – come strettamente legate l'una all'altra. È una delle cose più ovvie e allo stesso tempo più difficili. È una sfida questa da cui vennero risparmati (per molti motivi: un diverso rapporto tra chiesa e politica italiana e internazionale, un diverso sistema dell'informazione, un'era precedente il sex abuse scandal, etc.) i pontificati fino al Vaticano II (Giovanni XXIII e Paolo VI). I due pontificati del post-Vaticano II (Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) hanno invece gestito in modo separato la questione istituzionale (interna) e quella morale (il messaggio).

Oggi Francesco paga il conto di quella gestione e questo getta una luce sulla crisi che il pontificato ha innescato in alcuni cattolici ultraortodossi (specialmente negli Stati Uniti, dove vivo e insegno). Nella chiesa di Francesco il problema teologico sembra essere (per coloro che sono contrari alle riforme alla luce della pastoralità di Bergoglio) il rapporto tra "dottrina" e "pastorale": sono contrari perché vedono la pastoralità come indebolimento della dottrina, come se la dottrina possa essere indipendente dalla cura delle anime. Ma a molti sfugge che c'è un'altra dimensione tipica di questo pontificato: con Francesco siamo di fronte ad un nuovo rapporto tra teologia e istituzione. Come ho scritto in un saggio (molto lungo) pubblicato su una rivista americana il mese scorso in questi ultimi cinquanta anni i cambiamenti nella teologia della chiesa hanno avuto scarsissimo impatto sulla struttura dell'istituzione, specialmente sulla Curia Romana. Francesco è stato eletto nel momento di crisi più evidente scaturita da quella malsana indipendenza della istituzione da una sana teologia della chiesa. È quello che aveva intuito, dimettendosi, Benedetto XVI, colmando con quella decisione un ritardo lungo cinquanta anni. Con buona pace di coloro che accusano Bergoglio di aver portato una "guerra civile" nella chiesa, è stato Benedetto XVI e non papa Francesco a sottoporre la chiesa alla terapia shock (e i cattolici non cesseranno mai di essergli grati per questo).

A giudicare da tutto quello che dice e fa Francesco oggi, è evidente che per il primo papa pienamente post-conciliare come Bergoglio questo problema di separazione tra teologia e istituzione è molto chiaro. Una riforma della chiesa in senso "conciliare" (del concilio Vaticano II) significa anche cose molto concrete e tangibili, come per esempio la gestione del denaro e del rapporto tra chiesa e politica. Basta leggere il "Patto delle Catacombe" che ha permeato la chiesa latinoamericana. Fu firmato da un gruppo di vescovi, nelle catacombe di Domitilla, il 16 novembre 1965, a margine del concilio Vaticano II. Il cosiddetto "VatiLeaks 2.0" è a suo modo celebrazione e memento del Patto delle Catacombe e della chiesa che verrà.

Massimo Faggioli