Raramente ci capita di leggere un testo biblico così legato ai fatti di attualità come il Vangelo di questa domenica ambrosiana (Mt 21,10-17). Forte per me la tentazione di ridurre questa riflessione all’approfondimento della differenza tra conflitto e violenza, ma cercherò di resistervi. Mi sembra invece più fecondo recuperare qualcuna delle radici bibliche e spirituali, che lo hanno generato, che potreste fruttuosamente confrontare con le interpretazioni spiritualistiche, con le quali verrà svilito domenica prossima.

Quando c’è un riferimento al Tempio nella Bibbia, bisogna innanzitutto riandare alle motivazioni originarie, che hanno sostenuto la sua costruzione. Al di là delle motivazioni ufficiali dettate dalla corte di Davide e Salomone, sappiamo che il Tempio di Gerusalemme s’inseriva in quel grande processo di accentramento monarchico, avviato già con il re Saul. Le tribù d’Israele maggioritariamente decisero di essere come gli altri popoli limitrofi. In questo progetto il Tempio a Gerusalemme era fondamentale, per rispondere a due esigenze: innanzitutto il controllo del re sulla classe sacerdotale, ma anche la benedizione perenne della monarchia, ogni volta che il re partecipava devotamente alle varie liturgie; inoltre l’afflusso forzato dei fedeli per i pellegrinaggi avrebbe garantito una serie di tasse alle finanze regali.

Quindi quei commercianti nel cortile del Tempio non sono lì per caso, o perché sono più avidi e cattivi del resto dell’elite di Gerusalemme. Si tratta invece di un preciso modello socio religioso, che Israele aveva copiato dai popoli pagani e lo stava realizzando con grande successo.

Dal canto suo il gesto di Gesù non è un’uscita estemporanea, dettata da qualche insofferenza personale. In realtà è un gesto pensato fin nei minimi dettagli, che porta a compimento quel Movimento profetico, che fin dai suoi inizi si oppose al progetto sopra descritto. Ovviamente è impossibile ricostruirlo in questo contesto. Basti però citare la famosa denuncia riportata al capitolo 7 di Geremia. In altre parole Gesù riprende la denuncia di ogni forma di riduzione della religione a servizio del potere politico ed economico. Mi permetto di ricordare che questa strumentalizzazione non sempre e non solo si realizza attraverso dichiarazioni esplicite di appoggio reciproco. Normalmente avviene attraverso la convivenza quotidiana negli stessi ambienti vitali. In tal modo le masse associano i due poteri e quello religioso finisce per dare comunque l’endossament a quello civile, a prescindere da ciò che fa.

A questo punto le anime ingenue, o particolarmente legate al potere, aggiungono: “Tutto ciò è verissimo! Ecco perché in chiesa non si devono mai trattare le questioni sociali. In chiesa bisogna solo pregare e predicare la Parola di Dio”. Affermazione fin troppo ovvia nella sua banalità; salvo poi doverci chiedere: ma cos’è la preghiera cristiana e non la spiritualità genericamente intesa? Cosa significa meditare sulla Parola di Dio?

Matteo ci dà un indizio impercettibile, quanto inequivocabile. “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera”. Voi invece ne fate un covo di ladri». Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì”. Se Gesù pensasse che la preghiera e la liturgia devono portarci lontano dai drammi e dalle contraddizioni della Storia, non avrebbe accolto storpi e zoppi esattamente nel momento in cui invitava a pregare in quel tempio.

Questa accoglienza ci dice invece che cos’è la preghiera cristiana e cosa significhi meditare la Parola di Dio: significa mettersi in silenzio davanti al Padre, per reimparare continuamente da Lui a guardare e giudicare i fatti con i suoi stessi occhi, con il suo stesso cuore, ovvero guardare e giudicare il modo dalla parte deli Ultimi e degli Oppressi.

Mi piace qui ricordare una delle migliori sintesi di quanto sto dicendo, formulata da Benedetto XVI° durante il discorso inaugurale del CELAM V° ad Aparecida in Brasile: “L’opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci con la sua povertà”. Per chi non è abituato al linguaggio teologico, significa che non si può essere cristiani, se non si fa l’opzione preferenziale per i poveri. Confesso che ancora oggi mi chiedo, se il Papa fosse pienamente consapevole delle ricadute della sua affermazione. Forse ha voluto semplicemente mettersi al servizio della Verità cristiana.

Comunque sia, a noi poco importano questi dettagli. Ciò che conta è non oscurare, o anestetizzare, la forza rivoluzionaria del Vangelo di Gesù, del quale il gesto odierno è una testimonianza inequivocabile.

Pe. Marco