don Marco ci invita a riflettere sulla figura del re Davide. Attualizzando la contrapposizione tra il potere assoluto con autoritarismo contro il valore della sinodalità. Alla Chiesa di oggi è richiesto di scegliere ogni giorno, in ogni contesto ad ogni livello la vera sinodalità.

Queste riflessioni, che vorrei condividere con voi, sono nate a margine della prima lettura di questa domenica (2Sam 12,1-13), che ci presenta il grande pentimento del re Davide, dopo il grande peccato narrato nel cap 11 dello stesso Libro. Normalmente la sottolineatura principale è riservata al peccato di adulterio di Davide con il conseguente omicidio del marito di Bersabea, per far sì che non scoprisse il misfatto. Tutto ciò è assolutamente legittimo e corretto. Purtroppo la nostra tradizione spirituale e morale ha riservato ben poca attenzione a ciò che ha favorito tale doppia tragedia: il potere assoluto, di cui disponeva Davide, ed il conseguente autoritarismo, che ha favorito la sua caduta.

Il re biblico, l’unto di JHWH, avrebbe dovuto esercitare il Diritto e la Giustizia come recita Ger 23,5-6; essere il garante dei poveri e delle vedove di fronte all’arroganza dei potenti di turno. Invece, fin da subito con il santo re Davide, il peggio della monarchia si manifesta in tutta la sua crudezza. Certamente il redattore di 1Sam 8,11-18, che narra il travagliato passaggio dalla struttura tribale a quella monarchica, doveva aver ben presente le tragedia di Davide.

Eppure, è proprio la sacralizzazione del potere, che rende possibile tali tipi di abuso, fino ad arrivare alla pedofilia clericale contemporanea. Infatti, la sacralizzazione del potere fa sì che l’unzione, o una qualsiasi semplice nomina, venga vista come un’investitura, che colloca l’eletto in un rapporto privilegiato con il divino. In tal modo il soggetto viene sottratto alle leggi, che regolamentano la vita dei suoi pari. Lui/lei è in un rapporto diretto, privilegiato, con il divino; quindi ogni sua decisione è in principio buona e positiva. Criticare, o dubitare, dell’agire di un’autorità unta da Dio, significa in qualche modo andare contro Dio, confrontarsi con Lui.

E’ per questo motivo, che la pedofilia ha potuto diffondersi tra i religiosi; così come è ancora fortemente minoritaria l’opera di denuncia e smascheramento dei crimini già consumati, pur essendo in aperta contraddizione con la scelta di vita religiosa.

E’ vero che la perversione sessuale è molto più diffusa e sottaciuta in ambienti non religiosi. D’altro canto la sua diffusione in ambito religioso cristiano non può che suscitare le più morbose attenzioni, per l’aperto contrasto con il dettato evangelico.

Purtroppo, però, dentro la Chiesa si tende ancora a ridurre gli abusi sessuali a peccati contro il Sesto Comandamento, oppure come frutto di perversioni psicotiche. Mentre raramente il tutto viene riletto alla luce di una gestione del potere e dell’autorità totalmente estranei ai principi evangelici.

Anzi, fu proprio il diabolico incontro/fusione tra la Chiesa e la struttura imperiale nel corso del IV° secolo d.C., che permise il fiorire dell’autoritarismo nella Chiesa. Infatti, l’imperatore era stato scelto agli dei; pertanto le sue decisioni avevano a priori il beneficio della Giustizia e della Verità. In questa visione del mondo, ancora oggi quotidianamente la maggior parte delle decisioni ecclesiali vengono prese secondo questo modello autoritario. A prescindere dal fatto che le decisioni siano giuste, o meno, il problema per noi cristiani sta nel metodo.

Infatti, se vogliamo assumere il Vangelo come criterio del nostro agire, allora le indicazioni di Gesù al riguardo sono tassative, vedi Mt 23,11-12 “Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo“. Per non parlare dell’inequivocabile brano della “Lavanda dei piedi”.

Forse ai più non sarà chiaro il legame tra l’esercizio del potere e questi richiami al valore del servire. Ma questa estraneità è il primo indicatore di quanto la visione cattolica dell’autorità si sia allontanata dalle sue origini evangeliche.

Infatti, l’autorità che serve, non è qualcosa di bello e impossibile, idilliaco e lontano dalla realtà. Il servizio dell’autorità cristiana lo si può capire oggigiorno rileggendo le osservazioni più acute sul tema della sinodalità. Solo dentro una radicale processualità sinodale, l’autorità ed il potere possono essere esercitati in modo evangelico. Infatti, nel procedere sinodale l’autorità non ha nessun accesso privilegiato alla Verità ed alla Giustizia. Ha invece il dono ed il compito di far sì, che in qualsiasi gruppo, o istanza ecclesiale, i discepoli coinvolti possano partecipare al processo di ascolto e riconoscimento dello Spirito, operante nella realtà.

Nel procedere sinodale nessuno si aspetta dall’autorità il dono dell’illuminazione, per istruire e guidare i subalterni. Invece, ci si aspetta una capacità di servire così grande, da farsi carico della fatica ed a volte dei conflitti intrinseci al percorso decisionale di ogni raggruppamento umano.

Perché la sinodalità, come sua sorella Democrazia, non hanno di mira il bel parlare, vuoto e inconcludente, bensì l’apparire, il disvelarsi contraddittorio e doloroso della Verità.

                                                                                  Pe. Marco