commento

Questa quarta domenica del Tempo pasquale è tradizionalmente denominata del “Buon Pastore”, perché, a partire da questa parabola del cap. 10 del Vangelo di Giovanni, la Chiesa c’invita a pregare per coloro che, oggi, sono chiamati a rappresentare fisicamente Gesù, i Pastori della Chiesa. In questo nostro tempo in cui, a causa dei vari scandali esplosi, è emerso il ben più pericoloso male del clericalismo autoritario, ecco che questa tematica acquista una rilevanza ed un’importanza assolutamente fondamentale. Al di là degli apporti dati dalle varie discipline psicoterapeutiche, il percorso più radicale e sicuro, che la Chiesa possa compiere per estirpare questo cancro, è quello di un incontro rinnovato con la Parola di Dio, che sola può e deve indicarci il senso e lo stile dell’essere pastori nella Chiesa di Gesù.

A questo riguardo penso che non si mediterà mai abbastanza sull’affermazione categorica, pronunciata da Gesù pochi versetti prima di quelli citati oggi: “Io sono il Buon Pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Ma non si pensi che questa sia una novità assoluta introdotta da Gesù. Già Ez 34,11 proclamava: “Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura”. In altre parole, se è pur vero che JHWH si è sempre servito della collaborazione di uomini in carne ed ossa per condurre il suo popolo, è altrettanto vero che Lui rivendica e si fa garante di questa relazione fondamentale tra Lui e le sue pecore, il Suo Popolo.

Gesù, oltre ad affermare questo principio fondamentale, attraverso la sua umanità ci mostra in modo significativo quale deve essere lo stile dei suoi pastori. E così, i Pastori della Chiesa, da un lato devono mantenere permanentemente una sorta di “distanza critica”, ovvero devono sempre relativizzare sé stessi ed il proprio ruolo; perché noi non abbiamo mai l’ultima parola, noi siamo sempre e solo intermediari, ambasciatori, di una Parola altra, di un Altro.

Ciò non significa, come succede spesso ai nostri giorni, che i Pastori vivano in preda all’insicurezza e nell’indeterminatezza continua, senza mai prendere una decisione, o una posizione. A seconda della gravità del momento, o della situazione, abbiamo certamente il dovere di esprimerci in modo autorevole. Ma la nostra autorevolezza non dipende dal nostro far riferimento alle leggi del Diritto canonico, o dalla durezza dei nostri interventi. La nostra autorevolezza è direttamente proporzionale all’amore appassionato, che testimonieremo ai nostri interlocutori, alle “nostre pecore”.

Il Pastore Gesù è riconosciuto ed accolto dalle pecore giustamente perché vive nella dedizione continua ad esse, “dà la vita per loro”; per questo motivo lo riconoscono e lo accolgono, anche quando le richiama, o insegna loro in modo categorico.

Nella deriva del clericalismo autoritario assistiamo invece alla ricerca della massima distanza dalle pecore. Il pastore clericale ha bisogno di distanza e riservatezza, per avvolgere il suo ruolo di un’aurea magica, divina; ovvero sovrumana e indiscutibile. Da questo spazio sovrumano e inaccessibile il pastore clericale fa discendere sui fedeli, sulle sue pecore, le sue decisioni ed i suoi pronunciamenti prevalentemente “ex cathedra”, senza troppi riferimenti all’unico vero Pastore e Maestro; giustamente perché i suoi pronunciamenti sono espressione del suo “ego”, infinito e narcisista, e non mediazione della Parola del Maestro. In questo modo assistiamo alla tragica relazione: più incompetente ed impreparato è il pastore clericale, più è dogmatico, autoritario e assoluto nei sui pronunciamenti e nelle sue prese di posizione.

Purtroppo, nell’estrema complessità della vita contemporanea la tentazione di rinchiudersi in questa sfera magica e atemporale è particolarmente forte, anche da parte di coloro che, pur mossi da buone intenzioni vocazionali, sentono il peso e l’incapacità di annunciare qualcosa di valido ed autorevole a questo mondo, fluttuante e perennemente instabile. Il clericalismo, in fondo, garantisce loro una visibilità ed un’identità. Ma, anche e soprattutto, in quest’epoca d’individualismo e narcisismo dilaganti i buoni pastori solo possono fiorire nella sequela e nell’imitazione dell’unico Pastore, che dà la vita per il Popolo di Dio, anche quando questo Popolo non lo capisce, o non lo valorizza.