Come penso coglierete, ascoltando le letture di questa domenica, a causa della (contro)riforma del nostro Lezionario ambrosiano, siamo costretti, praticamente, ad anticipare i temi delle prime domeniche d’Avvento.
Inesorabilmente dobbiamo soffermarci sulla grandezza del Battista, che, nonostante, il suo carisma profetico, che gli aveva procurato non pochi discepoli, eppure riesce a “spogliarsi” di sé, del proprio super-io sempre in cerca di grandezza e gloria, per riconoscere la sua relatività, rispetto all’Unto di JHWH. Sarà sempre utile per ogni cristiano, ma soprattutto per coloro che rivestono qualche incarico, o responsabilità nella Chiesa, dicevo, sarà sempre utile meditare sull’umana invidia dei discepoli del Battista, al vedere alcuni di loro spostarsi su questo nuovo Profeta, che però è ben più che un Profeta. Soprattutto dobbiamo continuamente riprendere nelle nostre meditazioni il circolo vizioso, che si crea tra i discepoli e il loro maestro, nel caso il Battista. In particolare si noti come, la loro dipendenza dal Battista, tenda ad assolutizzare il suo ruolo e la sua missione. Purtroppo, normalmente, la grande maggioranza dei leader tende a mantenere e rafforzare questo legame; ovviamente, diciamo noi, per il bene di questi “piccoli”, che hanno bisogno di essere guidati e rafforzati.
Giovanni fa esattamente il contrario: li rafforza, staccandosi da loro, tagliando, quasi, il cordone ombelicale, che li legava a lui, e li affida all’unico e vero Maestro. Come ciò possa e debba avvenire, dipende dalle infinite, molteplici situazioni, che la vita ci riserva. Pur senza poter approfondire questo dettaglio, mi permetto però di far notare che l’affidamento/passaggio è da un maestro umano, e che maestro: il Battista, al Maestro, unico ed insostituibile. Ovvero, non è il passaggio da un maestro umano ad un altro, di turno in quel momento. Invece, molto spesso, i conflitti e le frustrazioni nella Chiesa nascono da una sovrapposizione indebita tra un “maestro”, chiunque egli sia, ed un altro “maestro” umano, che, però, pretende per sé dedicazione e rispetto come se fosse il Maestro, il Signore. Ma, come dicevo, non voglio dilungarmi su questo dettaglio.
L’altro focus delle letture di questa domenica sono i vv 31-36, con quella conclusione “irata” sempre difficile da accettare per le nostre orecchie troppo bisognose di “misericordia”…
Ovviamente questi versetti, per il tipo di linguaggio ed il tipo di autoconsapevolezza, non possono essere stati letteralmente pronunciati da Giovanni Battista. In realtà, la comunità giovannea ha messo sulla bocca del Battista quella che era la sua consapevolezza di chi fosse Gesù di Nazareth e quale fosse la portata della Sua missione.
Innanzitutto il binomio venire dall’Alto-venire dalla terra vuole sottolineare come nell’umanità di Gesù sia presente e si riveli “un di più”, che viene dall’Alto, e non è riconducibile ad un mero sforzo umano, ad una, seppur profonda, riflessione umana.
Contrariamente a ciò che fanno taluni pessimi predicatori e falsi teologi, l’Evangelista non indugia morbosamente nel voler scoprire come questo “di più”, questo Divino operi nell’umanità di Gesù. Gli basta riconoscerlo e confessarlo nella fede, per attribuire al Vangelo di Gesù un valore unico, inestimabile, ontologicamente diverso, potremmo dire, usando un linguaggio sofisticato.
Dopo aver enfatizzato questa diversità ed unicità di Gesù per la storia umana, l’Evangelista arriva all’affermazione radicale e perentoria: chi crede nel Figlio ha la Vita Eterna. Questa definizione, decisiva per tutto il Vangelo giovanneo, non può e non deve essere letta in una prospettiva giuridico-retributiva, quasi che, per determinazione divina, chi professa in qualsiasi modo la fede in Gesù, come premio avrà la Vita Eterna. Innanzitutto il credere giovanneo non è mai un fatto giuridico, o intellettuale. Credere qui deve essere inteso nel senso genuinamente biblico, dell’adesione/investimento totale della vita nei riguardi di questa persona, Gesù di Nazareth. Ecco allora che Giovanni ci sta dicendo che, l’aderire a Gesù ed il vivere la sua proposta di vita, ci fa partecipare, ci fa sperimentare cos’è la Vita Eterna.
Ciò significa, anche, che la Vita Eterna non ha bisogno della nostra morte fisica, per essere assaporata ed esperimentata: nella vita, nella prassi di Gesù, che può essere quella di ciascuno di noi, è, qui ed ora, sperimentabile, fruibile.
La logica ed esistenziale conseguenza di tutto ciò è che lontano da Gesù, ovvero fuori dalla prassi di Gesù, c’è solo “l’ira di Dio”.
Anche in questo caso, non si tratta della conseguenza di un atto giuridico di Dio, che sanziona un castigo, una pena.
È la propria struttura del reale, della vita, che porta in sé questa alternativa semplice, eppur radicale: La Vita Eterna è vivere come Gesù, è vivere il suo Vangelo; la morte, l’(auto)condanna, l’ira di Dio è scegliere forme di vita contrarie, difformi dal Vangelo. Il linguaggio radicale, estremo, usato da Giovanni
A ciascuno di noi, pertanto, spetta il compito di determinare il proprio destino.
Pe. Marco