Il brano degli Atti degli Apostoli, che ci è proposto per questa domenica, fa parte di una lunga sezione, iniziata con At 3,1 e che terminerà con At 4,31. L’origine di questa prima disputa, tra i giudei e i discepoli di Gesù, è la liberazione di un uomo paralitico, che era solito chiedere l’elemosina sulla porta del Tempio. Passando di là Pietro ed altri discepoli, il poveretto fa ciò che è abituato a fare da una vita: chiede un’elemosina. Pietro gli risponde con la famosa frase: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!”.

Se non vogliamo cadere nella solita trappola miracolistica, questa vicenda nelle intenzioni di Luca vuole mostrarci, come la forza liberatrice di Gesù è stata donata alla sua Chiesa. Ecco, allora, che i discepoli di Gesù devono continuare l’azione liberatrice di Lui, per ristabilire gli uomini e le donne nella loro piena dignità di figli di Dio. La Carità, quella vera, non si limita della facile elemosina, che accontenta tutti sul momento, ma non ha mai liberato nessuno.

La Carità deve sempre tendere a ristabilire ogni essere umano nella sua dignità, rimuovendo le cause della sua fragilità e della sua dipendenza, perché ognuno possa camminare a testa alta con le proprie gambe. Evidentemente tutte queste affermazioni, oltre all’ immediato significato fisico, hanno un profondo valore simbolico e sociale.

A differenza di Pietro, le nostre Chiese e soprattutto le nostre Caritas hanno ancora troppi soldi da spendere in elemosine di tutti i tipi. Forse è anche per questo, che le nostre Comunità cristiane sono mediamente molto acquiescenti verso le varie forme di assistenzialismo, più o meno stataliste.

Se la vostra pazienza me lo concedesse, sarei molto tentato di raccontarvi nei dettagli le prime reazioni di varie realtà ecclesiali, ad un tentativo di messa a tema dell’emergenza abitativa nel lecchese. Una vera e propria gara a raccontare ciò che la propria entità sta facendo, per alleviare questo dramma sociale. Peccato che pochi si preoccupino di andare alla radice del problema, di pensare le modalità per proporlo nel dibattito politico, al fine di cercare delle risposte strutturali allo stesso.

In realtà, una spiegazione c’è per spiegare questa riduzione assistenziale della Carità. Infatti, come nel caso del paralitico, dire il nome, dare il nome ai problemi, alle loro cause ed alle loro soluzioni, vuol dire sempre, in un modo o nell’altro, scomodare qualcuno, smascherare misfatti ed ingiustizie, sollevare il coperchio su qualche forma di sopruso, o negazione di un diritto. In altre parole significa incontrare la Croce, quella vera, quella di Gesù di Nazareth, frutto dell’annuncio del Regno e della denuncia delle ingiustizie, che lo ritardano continuamente.

Di fronte a ciò, però, merita rilievo la reazione della prima Comunità cristiana. Infatti, a differenza delle nostre, non cerca di far desistere Pietro e gli altri in nome del senso comune e del quieto vivere. Anzi, dopo aver riletto quegli avvenimenti alla luce della Parola di Dio, chiede al Signore: “Concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta franchezza la tua parola”. Qui sta il senso ed il criterio dell’autenticità per ogni Comunità cristiana: aiutarsi e sostenersi reciprocamente nel vivere il Vangelo in tutte le sue conseguenze.

Invece, gran parte delle nostre prassi pastorali sembrano delle vere e proprie scuole di assimilazione alla cultura dominante e di allenamento al quieto vivere.

Possa il Signore Risorto risvegliarci da questo torpore!

Pe. Marco