Il Convegno delle Caritas decanali dal titolo: “Farsi prossimo per essere pellegrini di speranza” è stato l’avvio dell’anno pastorale. Questa giornata di formazione e confronto ha radunato insieme i dipendenti di Caritas Ambrosiana, gli operatori delle Cooperative del Sistema Caritas, i responsabili di zona, i responsabili di decanato e i loro più
SEGNI DEI TEMPI: COME “TRASFORMARLI” IN SEGNI DI SPERANZA
C’è un errore nel titolo di cui sono responsabile e per il quale mi scuso: i “segni dei tempi” non dipendono da noi: possono / devono essere “interpretati”, non possono essere “trasformati”. Detto questo, alcune premesse e cinque passi.
0. Premesse
- “Segni dei tempi”. E’ un’espressione ambigua, va chiarita. Oscilla nell’indicare ora i tratti di un determinato contesto storico, ora i “segni dello Spirito divino posti nella storia”. Per esempio, l’individualismo è senz’altro un “segno del nostro tempo”, ma è impossibile vederlo come un “segno dello Spirito divino”. Comprendiamo subito che occorre discernere.
- “Speranza”. Come tutte le grandi parole (anche del cristianesimo), anche “speranza” non va più da sé, chiede chiarimenti. C’è infatti una speranza buona come c’è n’è una cattiva (così come per la fede, lo spirito, la gioia, l’amore, ecc.); ma poi ci sono le speranze che servono ad alzarci da letto la mattina, e c’è la speranza che regge la nostra vita intera anche quando non riusciamo più ad alzarci dal letto. Ovvio che non possiamo ridurre la speranza a le speranze.
- “Avvento” e rivelazione. L’incontro con Gesù, parola incarnata del Padre, cambia il nostro rapporto con la realtà. La nostra speranza trova la sua energia non prima di tutto nel futuro (possibile, progettato, ecc.) bensì in ciò che ad-viene, cioè ci viene incontro, anche quando è inatteso1. La progettualità è sempre seconda, e dipende – senza mai esaurirlo – da
Articola questa distinzione SILVANO PETROSINO, Lo scandalo dell’imprevedibile. Pensare l’epidemia, Interlinea 2020.
ciò che si “rivela” in ciò che accade / avviene e che ci chiede apertura / accoglienza. La rivelazione divina è allora il criterio decisivo di ogni discernimento, mai però al di fuori della storia, e mai senza la percezione di ciò che ci manca e che solo da fuori, e da un Altro, ci può essere dato.
1. Speranza nella bibbia
- Speranza per vivere: l’Alleanza. Nell’AT abbiamo un uso profano del gruppo di parole che dicono la speranza. Circa metà delle occorrenze, però, ha una connotazione religiosa (=fondamento della speranza è Dio). Ciò è tanto più notevole se si considerano i contesti babilonese e greco, contemporanei alla Scrittura, per i quali la speranza non è mai religiosa. La fisionomia tipica della speranza ebraica (e cristiana) è espressa dall’idea e dalla realtà dell’alleanza, intesa come relazione di attenzione / cura che ha origine in Dio e che fonda la sua credibilità (sperabilità, amabilità) sui suoi gesti salvifici.
- Mai sperare solo per sé. Speranza nella bibbia non è mai prima di tutto un atteggiamento personale. Sebbene sia qualcosa di cui appropriarsi da parte di ciascun membro del popolo di Dio, essa ha prima di tutto una dimensione collettiva. Anzi, si potrebbe dire che la speranza personale è sempre debitrice, e poi al servizio, della speranza condivisa.
- Abbiamo bisogno di profetesse e profeti. Cosa sia “sperabile” ce lo rivelano soprattutto profeti e profetesse, che nell’oggi sempre diverso della nostra storia – e soprattutto quando è assai negativo – ci dicono quello che Dio ci dice / ci chiede. Essi sono i grandi protagonisti di una speranza che si ri-con-figura continuamente, senza che alcuna configurazione possa dirsi definitiva (anche l’escaton, la realtà ultima per antonomasia, è detta in metafore).
- La fatica della speranza e le tentazioni della disperazione. La nota di fondo della rivelazione, capace di attraversare anche le tragedie, è la bontà del vivere. Sempre, soprattutto quando ce n’è più bisogno e pare impossibile, si riaffaccia un nuovo inizio, e risuona pertinente una promessa capace di contrastare le tentazioni del risentimento, del cinismo, del nichilismo (cf Sapienza 1-3).
- 2. Discernimento
Luca 12
49Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! 50Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
51Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. 52D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; 53si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».
54Diceva ancora alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: “Arriva la pioggia”, e così accade. 55E quando soffia lo scirocco, dite: “Farà caldo”, e così accade. 56Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? 57E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?»
- Contesto illuminante. Il cap 12 di Luca, di cui il testo riportato costituisce la parte finale, ci propone tre elementi interessanti per la nostra meditazione. a) Si apre con una immagine dura: i discepoli di Gesù – come il loro Maestro – avranno dei nemici e saranno giudicati nei tribunali. Viene assicurato l’aiuto dello Spirito santo, però non dovranno preparare prima la loro difesa… Cioè: avranno dei nemici ma non saranno nemici di nessuno. Preparare prima la difesa, infatti, vuol dire immaginare di essere nemici di qualcuno, vuol dire accettare e coltivare l’inimicizia. b) Gesù chiede di liberarsi della ricchezza. E’ rassicurante, ma è un idolo; illude e ostacola l’inquieto affidarsi a Dio soltanto. c) Ma come fidarsi di questo Dio che Gesù rivela? E’ un Padre buono, misericordioso, e ora viene ritratto nel gesto di servire. Ci piace?
- • Vangelo e conflitto. E’ proprio questa rivelazione di Dio come Padre misericordioso, origine buona di tutte e tutti senza esclusioni (comprende perfino i pagani!), a suscitare odio e opposizione. Sottrae infatti giustificazione teologica a ogni identità forte, che prospera su separazione, dominio, censura, esclusione, condanna… Non solo: cambia la vita di chi l’accoglie, mostrando che è possibile cambiare e suscitando così la resistenza di chi non avrebbe alcun vantaggio dal
- cambiamento – anzi dal ribaltamento – della storia cantato invece nel Magnificat di Maria (Luca 1,46-55). Ovvio che chi trae vantaggio dalle cose così come stanno non ha alcun interesse a cambiarle. Dunque il conflitto è inevitabile. Bisogna imparare a starci dentro e a gestirlo.
- Gesù è contro la pace e la famiglia? No, ma il conflitto attraverserà anche le relazioni più “sacre”. Saranno rivelati i limiti e le menzogne che ammalano le nostre relazioni, evidenziando il bisogno di “autenticarle”, convertirle… Non basta dire “pace” e “famiglia” per dire qualcosa di buono; bisogna sempre fare e rifare pace e famiglia, occorre continuamente convertirle al vangelo.
- Perché non sappiamo interpretare? Alla fine forse dobbiamo ammettere che non sappiamo interpretare i segni di Dio. Ce la caviamo con quelli che aprono futuri possibili; Tuttavia stentiamo a vedere i segni dell’avvento / avvenire di Dio. Perché? Forse non ascoltiamo abbastanza i profeti e il vangelo di Gesù. O forse lo abbiamo ascoltato abbastanza da aver capito che ci chiede cambiamenti che non vogliamo operare poiché non ci piacciono o sono troppo faticosi… Ecco profilata la lotta che ci vedrà impegnati per tutta la vita, la resistenza che ci sarà richiesta per custodire un po’ di speranza, fiducia e amore.
3. Resistenza
Matteo 24
1Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio. 2Egli disse loro: «Non vedete tutte queste cose? In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta».
3Al monte degli Ulivi poi, sedutosi, i discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: «Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo».
4Gesù rispose loro: «Badate che nessuno vi inganni! 5Molti infatti verranno nel mio nome, dicendo: “Io sono il Cristo”, e trarranno molti in inganno. 6E sentirete di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi, perché deve avvenire, ma non è ancora la fine. 7Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi: 8ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori.
9Allora vi abbandoneranno alla tribolazione e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. 10Molti ne resteranno scandalizzati, e si tradiranno e odieranno a vicenda. 11Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; 12per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti. 13Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato. 14Questo vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine.
- Tragedie della storia. Le immagini di questa pagina sembrano esagerate, troppo al limite, al punto da far gridare alla “fine del mondo”. Hanno infatti alimentato per secoli l’idea che l’“apocalisse” sarebbe stata preceduta da immani disastri. E invece sono la storia di sempre: anche oggi, perfino adesso, ci sono nel mondo guerre, carestie, terremoti… E che dire di pandemie e cambio climatico? Ci urtano, queste immagini, non perché non siano vere, ma perché abbiamo rimosso il “tragico” della vita. Non vogliamo turbamenti, ci indigna un Dio che ama “un mondo turbato e perturbato” (P. Sequeri). Ci affascinano le belle pietre del Tempio perché e se anche il dispositivo religioso è al servizio di questa rassicurazione… E tu Gesù ci dici che crollerà! Davanti al vangelo che fa verità, che rivelandoci il bene più grande non può non rivelarci anche il male più profondo, abbiamo paura. E’ questo il nemico della fiducia, della speranza e dell’amore. E’ a questa paura che dobbiamo resistere, altrimenti ci lasceremo ingannare.
- Restare, non fuggire. La speranza adulta del vangelo. Diventare adulti vuol dire saper vivere la vita, tutta; nel suo bene e nel suo male. Senza concedersi fughe: restare, assumere, condividere è l’imperativo. E quando il male entrerà perfino nella comunità delle sorelle e dei fratelli in Cristo, scatenerà la violenza dell’odio e del tradimento, perché anche tra noi cercheremo i colpevoli. Resistere al meccanismo del capro espiatorio, resistere alla scorciatoia distruttiva della violenza, sarà il compito di chi si è lasciato affascinare da Gesù.
- L’amore a rischio. Questa resistenza è vitale. Il rischio infatti è enorme, ed è sempre presente: l’amore si raffredda, si spegne; la terra diventa un inferno di ghiaccio. L’odio allora avrebbe vinto, e con lui la morte. Come testimoni del Risorto non possiamo rassegnarci a questo.
- Custodire “il fine” anche dentro “la fine”. Il compito di chi segue Gesù, di chi vuole essere testimone del vangelo – tanto affascinate quanto disturbante – è quello di custodire “il fine” del mondo anche dentro il moltiplicarsi dei segni de “la fine”. Tutto ciò che facciamo contro il male in noi e intorno a noi diventa così attestazione che il male non vince, non può vincere, non vincerà. Il Signore ci aiuterà nell’impresa. Forse però abbiamo bisogno anche di altri.
4. Figlie e figli del Regno
Matteo 5
1Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. 2Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. (…)
Matteo 25
31Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. 32Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, (…)
• Dai Beati ai Benedetti (che non sanno di esserlo). Il vangelo di Matteo ha una particolare architettura. All’inizio e alla fine, in una simmetria così esplicita che non può non essere intenzionale, compaiono misteriosi personaggi2 che sembrano indispensabili alla bontà della notizia di Gesù. Al cap 5, il discorso del monte (primo di cinque discorsi di Gesù) inizia
2 Il genere maschile di questi nomi è inteso come un collettivo che include donne e uomini.
con i beati; all’altro capo del vangelo, al cap 25, il discorso sull’interpretazione profetica della storia (ultimo discorso) termina con i benedetti. E non siamo noi. All’inizio perché la beatitudine dei discepoli è l’ultima («Beati voi»), ed è quella dei profeti; mentre le altre sono alla terza persona plurale («Beati [loro]»). Alla fine perché i benedetti neppure sanno di agire in riferimento a Gesù, né sanno del Padre (e figuriamoci dello Spirito) mentre noi dovremmo saperlo… Semmai ci venisse il dubbio che ci siamo inventati tutto quanto, ecco che la realtà di uomini e donne che sanno vivere secondo il vangelo pur senza conoscerlo ci sosterrà. Il vangelo non è né un’ipotesi, né una ideologia, né una utopia: è una realtà, nella storia, grazie al dono di Dio che si rinnova (senza farsi notare). Persone che lo vivono sono segni efficaci della grazia. La nostra fede ha bisogno di vederle, come ne ha avuto bisogno Gesù, per credere e testimoniare il “realismo” del vangelo.
• Giustizia come “giustificazione” dell’esistenza. Sono giuste e giusti. La loro giustizia si fonda in una felice relazione con l’Origine buona (il Padre) della vita, che non viene messa in scacco, né tanto meno distrutta, da alcun male; per quanto grande. Custodiscono la gioia (beatitudine) e la fecondità (benedizione) prendendosi cura del bisognoso, ovunque si trovi e chiunque sia. Sono vangeli viventi, segni della grazia divina, perché ci mostrano che il bene non è sconfitto, e che in nessun caso qualcuno è perduto. Ogni esistenza umana è quella di un figlio, e nessuno è messo tanto male da dover essere considerato sbagliato. Davanti alla vita ferita si mobilita la cura. Si capisce perché la Caritas, al di là dei nomi con i quali è stata chiamata, non è mai mancata nella storia della chiesa?
5. Conclusioni / aperture
- Apprezzare giusti e giuste per poter vedere segni di speranza. Lo facciamo abbastanza? Siamo capaci di farlo anche superando ostacoli o barriere eretti perfino dal “sacro”? Il nostro sguardo ha la libertà, la serenità, il coraggio di Gesù? Oppure non vogliamo vederli perché spesso stanno fuori dei nostri recinti e questo ci scoccia? In questo caso, però, che fine farebbe la novità (della gratuità) del vangelo? Non fanno tutti così?
- Un “segno della presenza di Dio in questa storia” siete voi, e quelli come voi (anche se non sapete di esserlo). Anche questo va detto: pure noi, che facciamo la carità, siamo segni di Dio. Ma qui dovremmo chiederci più spesso da dove ci viene questo amore: Chi ce lo fa fare? E dovremmo noi per primi restare stupiti di qualcosa che salva e che ad-viene al mondo attraverso di noi, ma provenendo da un Altro. Il segno di tutti i tempi della storia, sarà questo: un amore che non si raffredda nonostante cumuli immani di mali e disgrazie facciano di tutto per ucciderlo. Ma se ha questa resistenza, come può non essere abitato dalla forza di Dio?
- Dono ricevuto, dono ri-donato: la comunità cristiana ne ha bisogno (anche se non lo sa). Questo amore è un dono. Però va ri-donato. Ai poveri – qualsiasi siano le loro povertà – certo, ma anche alle nostre comunità. Dovrete avere pazienza: col mondo, che non vuole diventare migliore di com’è; ma anche con la comunità cristiana, che non vuole farsi inquietare. Sapere che il nostro servizio custodisce il fine della storia per tutti dovrebbe essere abbastanza da giustificare perfino il dono della nostra vita.
Luca Moscatelli
APPENDICE – Testi
SULLA SPERANZA
VACLAV HAVEL
(in AZAR NAFISI, La repubblica dell’immaginazione, Adelphi 2014, pp 54-55)
«La speranza è uno stato d’animo, non un dato oggettivo. La speranza, in questo senso profondo e potente, non equivale alla gioia perché le cose vanno bene o alla volontà di investire in imprese ovviamente destinate al successo, ma piuttosto alla capacità di lavorare per una cosa perché è buona»
(in AZAR NAFISI, Leggere pericolosamente, Adelphi 2024, pp 173-174)
«La speranza non è per nulla uguale all’ottimismo. Non è la convinzione che una certa cosa andrà a finire bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso indipendentemente da come andrà a finire»
SUL “TRAGICO”
PIERANGELO SEQUERI
Il grembo di Dio, Città Nuova 2023
«Lo gnosticismo esprime, teologicamente parlando, l’incapacità della filosofia del logos e della religione della legge, in questo perfettamente sovrapposte, di sopportare l’amore di Dio per un mondo turbato e perturbato. (…) La notizia di una intimità di Dio abitata ab aeterno (…) dalla dynamis di un amore originario, incomprimibile, definitivo, che si rivolge al mondo dell’uomo e della donna, manda in corto circuito tutte le collaudate connessioni del sacro (…).
La gnosi è anche comunità degli spiriti eletti, che si forma per auto-separazione dalla turbolenza mondana. (…) Ed è una separazione ostile.» (p 29)
«L’invenzione dei grandi tragici è questa: il permanere della domanda, dietro la quale affiora lo spettro della contraddizione insolubile. Il nuovo pensiero del logos, che inaugura la filosofia, cercherà il modo di prendere distanza dal fato e dal tragico, spostando la questione della libertà e della necessità nel domino del sapere chiaro e distinto del mondo che può essere governato. (…)
Il problema del tragico emerge in tutta la sua terribile e sconvolgente lacerazione proprio là dove l’istanza delle leggi divine appare devastante, almeno quanto le conseguenze dell’eccesso sono orribili. In quel punto esatto, dove il tragico si raddoppia nella sua stessa riparazione, la morsa della perdutezza non sopraggiunge a sancire l’eccesso della colpa, ma piuttosto l’eccesso dell’obbedienza. Se a questo punto si forma nella vostra mente l’immagine del crocifisso, condannato per aver chiamato in causa il nome di Dio nell’atto di trasgredire la legge in favore dell’uomo, e abbandonato nell’assenza di un solo gesto di Dio che lo sottragga alla sua terribile obbedienza, vi state avvicinando al punto che stiamo cercando di illuminare. Naturalmente, in questa luce, molti luoghi biblici prendono rilievo, ad illuminare lo sfondo in cui matura l’inimmaginabile compimento cristologico del paradosso tragico.» (pp 36-37)
«L’istanza sollevata dalla gnosi non è affatto insensata. La convinzione che la vera partita della vita e della morte, come anche quella del bene e del male, si giochi nell’intrico di “potenze” oscure, che sfuggono alla conoscenza del ragionevole e del disponibile “mondano” dell’uomo, rappresenta un tema assai serio. (…)
Il conflitto è sul fatto che l’ortodossia dell’incarnazione mette in campo, con assoluta determinazione, lo “sfondamento” della linea di separazione (fra il bene e il male, la vita e la morte) da parte di Dio stesso. Al “dualismo” gnostico della opposte divinità in conflitto, il cristianesimo contrappone lo “sdoppiamento” dell’unico divino esistente. Il Figlio diventa carne in sintonia con l’affezione del Padre per la sua creatura. “Dio” è nel più alto dei cieli e nello sprofondo degli inferi. (…) Dio abbraccia il mondo perturbato e perturbante: lo “stesso” che è nei cieli ha generato il Figlio e ha donato la sua propria esistenza alla creatura mondana. (pp 43-44)
AZAR NAFISI
La Repubblica dell’immaginazione, Adelphi 2014
«Qualche anno fa, in un’intervista con Scott Simon allo Holocaust Memorial Museum, Sir Ben Kingsley lamentò il fatto che stiamo proteggendo i nostri giovani dal dolore e insegnando loro a evitare la tragedia. Questo tentativo di eliminare tutto quello che troviamo spiacevole è il vero pericolo per la nostra società (…). Credo che Baldwin non potesse immaginare nemmeno nei suoi sogni più arditi che i discendenti delle persone – nere e bianche – con le quali aveva manifestato per la libertà sotto la minaccia delle armi, che avevano affrontato i ceppi, le catene e la prigione per combattere la segregazione, avrebbero avuto paura di leggere la loro stessa storia. Hanno sofferto tanto e combattuto così duramente perché noi diventassimo un mucchio di rammolliti? (…) Cosa diremo alla ragazza iraniana arrestata e frustata perché è andata a una festa, o alla madre nigeriana la cui figlia è stata rapita dai terroristi e venduta come schiava (…)? Dobbiamo dire loro che non ce la facciamo ad ascoltare le loro storie? (pp 315-316)
Dovremmo insegnare ai nostri [giovani] che è fondamentale che la loro pace venga turbata; che c’è una differenza tra l’individualismo, che incoraggia la fiducia in se stessi e l’indipendenza, e il narcisismo, per cui tutto e tutti diventano un nostro riflesso, impedendoci di crescere; e che finché avranno paura del trauma continueranno a caderne vittime: il loro oppressore vincerà un’altra volta. (…) Leggevamo di persone ordinarie che avevano un coraggio straordinario davanti a un dolore inimmaginabile. Così imparavamo ad accettare il dolore e la barbarie, ma scoprivamo anche che non eravamo soli – che davanti a tutta quella atrocità non resta che vivere, vivere la massimo. Come disse Henry James, per resistere alla brutalità della guerra “senti più che puoi, anche se quasi ti uccide, perché questo è l’unico modo di vivere”» (318319)
[Cita Baldwin (p 321):] «Anche se la storia di come soffriamo, di come gioiamo e di come possiamo trionfare non è mai nuova, deve sempre essere ascoltata. Non c’è altra storia da raccontare; è l’unica luce che abbiamo in tutta questa oscurità» [e commenta:] «Può esistere la gioia senza il pericolo, la luce senza il buio?»
SUL FUTURO
MASSIMO MANDOLINI PESARESI
(Abscondida Spes. Fra dialettica del tragico e profezia, p 70; in SUSAN PETRILLI (cur.), La speranza come segno, Hope as a Sign, Mimesis 2024)
«La Speranza può avere un futuro solo se continuano ad esserci uomini e donne pronti a sognarla e a impegnarsi per lei. La tragedia incontra allora la sua dialettica antitesi e si fa profezia di un futuro possibile e realizzabile.»
ALBERT CAMUS (La peste)
(citato in esergo a SILVANO PETROSINO, Lo scandalo dell’imprevedibile. Pensare l’epidemia, Interlinea 2020)
«Non si trattava di rifiutare le precauzioni, l’ordine intelligente che una società introduceva nel disordine d’un flagello; non bisognava ascoltare i moralisti che dicevano: bisogna mettersi in ginocchio e abbandonare ogni cosa. Bisogna soltanto cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e tentare di fare del bene. Ma per il resto bisognava restare, e accettare di rimettersene a Dio, anche per la morte dei bambini, e senza cercare un personale ausilio. […] No, non c’era via di mezzo; bisognava ammettere lo scandalo, in quanto ci era necessario scegliere di odiare Dio o di amarlo.»