Anche questa domenica la nostra Liturgia della Parola è costruita attorno a due letture (Nm 11, 4-7. 16a. 18-20. 31-32a e Mt 14, 13b-21), che hanno come riferimento simbolico il cibo e la tavola, il mangiare insieme. Segno che questo aspetto, fondamentale per l’esistenza umana, è anche una delle occasioni privilegiate, dove si esprime il nostro grado di umanità. Infatti, se da un lato il mangiare abbandonato ai nostri istinti, può esprimere la nostra voracità distruttiva; dall’altro può essere uno spazio di comunione, nel quale la contaminazione dei cibi è lo strumento per la comunione tra le persone e la contaminazione delle culture.

Questa divaricazione, questa ambivalenza, ci viene mostrata molto bene dai due contesti citati.

Il popolo nel deserto non riesce a capire, che la qualità della sua vita non dipende più dall’aumento illimitato del cibo, bensì dalla cura per la sua Libertà. Cura che si gioca nella relazione obbediente e fiduciosa nei riguardi della Parola di JHWH. Il cibo necessario per attraversare il deserto della Vita gli è dato. Ora deve preoccuparsi di come costruire la nuova società nella Terra Promessa, dove nessuno sarà più schiavo e oppresso, perché così vuole la Legge del Signore.

Invece, fin dagli inizi, ovvero da sempre, l’ossessione è “che cosa mangeremo domani? Come ci vestiremo?” e questa paura ossessiva porterà a ricreare le stesse ingiustizie e le stesse oppressioni, che lui, il Popolo di JHWH, aveva sofferto in Egitto.

Eppure JHWH, pur intravvedendo questo esito tragico, non interviene miracolosamente, per preservare il Popolo dalle conseguenze dei suoi stessi egoismi. La pedagogia divina, ahimè, è distante anni luce dal “mammismo” della nostra cultura new age. Infatti, così parla JHWH a Mosé: “Ne mangerete non per un giorno, non per due giorni, non per cinque giorni, non per dieci giorni, non per venti giorni, ma per un mese intero, finché vi esca dalle narici e vi venga a nausea, perché avete respinto il Signore che è in mezzo a voi e avete pianto davanti a lui, dicendo: Perché siamo usciti dall’Egitto?”.

Salvo qualche parentesi eccezionale, questa putroppo è la legge mortale della vita, che divora gran parte degli oppressi, siano essi i sem terra del Brasile, o la classe operaia degli anni ’60, i migranti italiani in America Latina, o quelli che stanno arrivando in Europa. Una fame incontrollata di cibo e di beni ripiega tutti in una cura esasperata per corpo, rovinato dal troppo cibo. Così alimentiamo inconsapevolmente lo stesso ripiegamento vorace dei lupi, che dimenticano il resto della realtà, per avventarsi sulla ciotola con il cibo.

A fronte di questa nostra tendenza, che viviamo come una legge deterministica, Gesù dice: “Date loro voi stessi da mangiare”. Infatti, contrariamente alla traduzione proposta, il testo greco è ambiguo. Personalmente ritengo che l’ambiguità non sia casuale. Se Gesù chiedesse semplicemente ai discepoli di sfamare la folla, allora la richiesta andrebbe intesa come una sfida, per mostrare che solo Lui fa i miracoli. Ma noi sappiamo che Gesù pone dei segni a servizio della Fede, più che dei miracoli prodigiosi, che annullano la fatica del credere.

Invece a me sembra, che in questo frangente la logica evangelica sia particolarmente evidente.

Solo se i discepoli si consegneranno “in pasto” a quelle folle, quelle folle potranno essere sfamate. Darsi in pasto significa distogliere il proprio desiderio da sé, dai propri bisogni fittizi, e preoccuparsi degli “altri”, di questa folla, che interpella con la sua fame. Mettendosi in gioco per quegli “affamati”, i discepoli testimonieranno a quegli stessi affamati, che il cibo serve per vivere; ma guai se ne diventiamo schiavi e sacrifichiamo la nostra Vita al cibo, o a qualsiasi altro bene materiale. Anzi, la Regola d’oro per vivere in pienezza su questa Terra è quella di condividere, rimettere in circolo, tutto quel cibo e quei beni non necessari alla nostra Vita.

Viceversa, se Gesù facesse il miracolo del grande Inquisitore, non farebbe che rafforzare e incentivare la voracità del lupus, che è in noi, e scatenerebbe la falsa domanda di sempre: quanta manna posso mettere via? Ovvero quanti beni posso accaparrare per me, anche a costo della vita altrui?

Anche in questo caso, una lettura pagana del Vangelo rischia di svuotarlo dal suo interno; di annullarne la forza liberatrice.

Che ci venga allora la “nausea”, se ciò può servire al Signore per liberarci dall’egoismo.

                                                                                               Pe. Marco