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Indubbiamente questa solennità di Pentecoste può essere definita la “Festa della Chiesa” per antonomasia. A maggior ragione in questi tempi, in cui assistiamo alla rinascita delle peggiori forme di nazionalismo patriottico, è importante, per chi realmente vuol essere discepolo di Gesù, recuperare il senso profondo di questa fede e, conseguentemente, l’appartenenza alla Chiesa, che può essere, sempre e solo, di Gesù. Anzi, per introdurci a questa nostra riflessione, è opportuno recuperare quanto scrivevo domenica scorsa riguardo alla festa dell’Ascensione; ovvero, quella visione della Chiesa, Corpo di Cristo, ben chiara nella teologia paolina. In quella prospettiva qualsiasi altra appartenenza etnico-culturale viene radicalmente relativizzata.

Al di là della ricca simbologia e delle metafore usate, il testo degli Atti ci sta dicendo con un linguaggio narrativo questa bellissima verità. Quando il cuore dell’uomo viene invaso dallo Spirito di Gesù (non di Salvini, di Orban, o di Trump), le sue limitazioni vengono superate e può “convergere” sull’Uomo Nuovo, l’Umanità ricreata in Gesù, trasformando le nostre identità, senza perdere le specificità che ciascun uomo e ciascuna cultura possiede. In questo senso sarebbe un gravissimo errore esegetico, oltre che teologico, ridurre la Pentecoste ad un miracolo linguistico in senso tecnico, nel senso del linguaggio parlato. Noi sappiamo che la comunicazione non passa solo ed esclusivamente per il linguaggio parlato.

Il “miracolo” che Luca vuole trasmetterci è quello dell’incontro, positivo e costruttivo, tra le diversità, tutte le diversità della Terra (i popoli citati, sono i popoli conosciuti da Luca).
Come sempre la Parola porta in sé queste due dimensioni: quello dell’annuncio salvifico e quello della denuncia del peccato e delle sue conseguenze. L’annuncio è che laddove le diversità s’incontrano, comunicano e camminano assieme, lì con certezza è presente lo Spirito del Risorto.

Laddove le diversità non riescono ad incontrarsi ed a comunicare; o laddove una parte prevale sulle altre parti, ebbene in questi casi certamente lo Spirito Santo non è presente e non è accolto. Questa verità, che potremmo emblematicamente denominare “regola d’ora della spiritualità”, vale per ed in tutti gli ambiti della nostra vita umana, indipendentemente dalle nostre appartenenze religiose e culturali. Quindi dovrebbe essere riletta in tutte le dimensioni del nostro vivere quotidiano: dall’amicizia all’ambiente di lavoro, dalla relazione uomo-donna alla vita comunitaria, dalla dimensione culturale alle relazioni tra i popoli.

In questo senso, a me pare, che come cristiani abbiamo perso di vista la Parola non solo per quanto riguarda le questioni etniche, ma anche, più inconsciamente, per quanto riguarda le questioni affettive e sessuali. Le forzature ideologiche, imposte alla Bibbia, nel tentativo di omologare eterosessualità e omosessualità a me pare vadano lette in continuità con quanto detto fin qui. Nell’auspicio di non essere giudicato come omofobico, a me pare che i bellissimi racconti di Gen 1-2, o del Cantico dei Cantici non possono essere spazzati via, riducendoli a narrazioni determinate storicamente e culturalmente.

L’estasi meravigliata del testo biblico di fronte al prodigio dell’incontro/comunione tra la diversità più grande che esiste sulla Terra, quella tra un uomo ed una donna, ebbene la meraviglia di fronte a questo “miracolo” va’ ben oltre la costatazione di un dato di fatto. In realtà, quel linguaggio umano vuole farci contemplare un Mistero più grande e più profondo, che sta “dietro” e sostiene il realizzarsi di questa comunione. Tutto quanto affermato fin qui non vuol in nessun modo precludere la possibilità di un amore sincero presente anche in una relazione omo-affettiva. D’altro canto, se il testo biblico in tempi non sospetti si è soffermato sulla relazione eterosessuale, è perché in essa vi ha scorto una profondità ed una simbolicità uniche e irraggiungibili nelle altre tipologie di relazione.

Accennando ora fugacemente all’altro grande messaggio di questa Solennità, la dimensione missionaria, vorrei qui solo richiamare il cambio di marcia impresso dallo Spirito Santo alla comunità dei discepoli, smarriti ed impauriti. Anche loro, come noi oggi, spaventati e disorientati di fronte ad un “mondo” potente e pericoloso, si chiudono dentro le loro mura. Il loro destino sarebbe stata l’irrilevanza e annientamento, se non si fossero lasciati trasportare dall’imprevedibile avventura dello Spirito: quella di uscire “fuori”, andando incontro a ciò che, realmente o presumibilmente, li minacciava.
Se noi oggi siamo qui a celebrare questa bellissima Solennità di Pentecoste lo dobbiamo anche a quel loro affidarsi e fidarsi.

Pe. Marco